Il libro a cura di Roberto Biorcio e Matteo Pucciarelli, Volevamo cambiare il mondo. Storia di Avanguardia Operaia (1968-1977), (Mimesis, pp. 302, euro 20) racconta la vita di questa organizzazione della nuova sinistra dalla sua nascita fino alla sua scissione e alla sostanziale confluenza della parte minoritaria nel Pdup-Manifesto. Il volume è composto da una serie di contributi che toccano tematiche o eventi specifici della vita del gruppo, con un saggio iniziale di Biorcio che ne presenta il profilo, l’evoluzione e il contributo dato alle mobilitazioni e alle lotte dell’epoca. Non si può negare un tono autocelebrativo che pervade gran parte del libro, ma questo è perdonabile tanto più che non si tratta del lavoro di storici.
Avanguardia operaia (Ao) nasce a Milano dove avrà il suo maggior radicamento e la sua sede nazionale. A Milano vivono inoltre i suoi dirigenti più importanti e c’è la massima concentrazione di militanti e iniziative. Ma forse è proprio questo aspetto che ha influito sulla scarsa conoscenza del gruppo alla quale il libro intende rimediare. Anche la documentazione interna è scarsa, a parte l’archivio Marco Pezzi di Bologna, tanto che nella prefazione Giovanna Moruzzi, che ha preso l’iniziativa della raccolta di interviste su cui si basa il libro, scrive: «Su Avanguardia Operaia nessuno ha scritto niente, anzi Wikipedia riferisce solo informazioni ricavate dal processo Ramelli».
Eppure si è trattato di un’organizzazione importante di livello nazionale. Basti pensare che, a parte Il manifesto e Lotta Continua, è stato l’unico gruppo della nuova sinistra ad avere, sia pure per non molti anni, un quotidiano nazionale (Il Quotidiano dei lavoratori) e che riuscì ad aggregare intorno a sé moltte realtà locali anche a Torino, Roma e soprattutto nel Mezzogiorno. Alla sua fondazione concorrono tre soggetti: militanti comunisti insoddisfatti della linea del Pci, operai di fabbriche in lotta , spezzoni del movimento degli studenti non solo universitari ma anche medi provenienti da istituti prevalentemente tecnici.
La concezione dell’organizzazione era di tipo leninista a partire dal centralismo democratico previsto dallo statuto e richiamato anche nella tessera dell’organizzazione. Ma c’è una grande differenza tra il leninismo di Ao e le organizzazioni che si autodefinivano «marxisti-leninisti»: la critica radicale allo stalinismo e il non ritenersi il nuovo partito rivoluzionario. D’altronde nel corso del tempo il rigore «leninista», proprio per effetto della crescita dell’organizzazione, era andato affievolendosi. Invece, dalla tradizione comunista Avanguardia Operaia aveva ereditato l’importanza data alla formazione dei militanti e alla «scuola quadri». Si studiava molto: i classici del marxismo e del leninismo ma anche testi più adeguati ai tempi da Gramsci ad Althusser, come nota Vincenzo Vita nel libro.
Il bel saggio di Franco Calamida, che parte dalla descrizione del clima politico alla fine degli anni ’60 quando «spirava un vento generoso» e nelle fabbriche nascevano organismi di base, è invece dedicato ai Cub e al loro ruolo nelle lotte operaie degli anni ’70. Questi erano costituiti «da gruppi di lavoratori e lavoratrici che si univano, distinti dalle strutture sindacali tradizionali, per perseguire obiettivi comuni spontaneamente o a seguito di un intervento dall’esterno della fabbrica». Determinante fu il ruolo di Ao nel realizzare le condizioni per lo sviluppo del movimento dei Cub dando ad essi un’impronta unitaria in un periodo in cui le condizioni di lavoro diventavano sempre più dure per l’intensificazione dello sfruttamento. «Era cambiata l’organizzazione del lavoro in fabbrica e il sindacato non rispondeva ai nuovi bisogni. Noi abbiamo cercato di capire se fosse possibile creare un gruppo di operai che denunciasse le condizioni di lavoro, insomma fare ciò che il sindacato non vedeva e non faceva».
A questa prima fase di rapporto distante se non conflittuale con il sindacato segue una situazione nuova quando l’aspetto unitario della rappresentanza è fatto proprio dal sindacato con l’introduzione dei consigli dei delegati. Ciò portò a un’evoluzione del ruolo dei Cub che non dovevano più svolgere un’azione di supplenza nei confronti del sindacato ma essere elementi di attivazione politica cercando di influenzarne le scelte: nei Cub si discutevano le tematiche specifiche della fabbrica ma anche questioni politiche. Alla loro crescita e diffusione a Milano, Torino e Venezia corrispondeva la crescita di Avanguardia Operaia.
Al di là della crisi dell’organizzazione, alle rotture interne e ai loro esiti, cui anche nel libro è dato giustamente scarso rilievo, si può concludere tornando alla dimensione milanese della presenza di Ao. In quel territorio, il lavoro non si esauriva nei Cub e nelle fabbriche. Altrettanto importante fu l’intervento nelle lotte per la casa nelle quali erano spesso coinvolti gli stessi militanti operai. Rilevante e molto particolare fu l’impegno a livello culturale con i Circoli della Comune, centri di sperimentazione artistica, soprattutto teatrale, molto vicini al gruppo.
Questa concentrazione fu un elemento di forza dell’organizzazione che però non riuscì mai a bilanciare la generale ottica «milanocentrica» o quanto meno «nordista»: un limite che si riflette nel libro ma che fu anche proprio della dirigenza storica di Ao. Eppure l’esperienza dei Cub toccò fabbriche e situazioni anche nel Mezzogiorno, ad esempio i braccianti in Campania. E lo spirito dei Cub, di stimolo e non di alternativa ai partiti e ai sindacati, permeò l’intervento in diverse lotte sociali e proletarie. Come il movimento dei disoccupati organizzati o il Comitato degli handicappati organizzati a Napoli.
Colpisce infine nel libro la mancanza di un riferimento al bel romanzo autobiografico di Bruno Arpaia (Il passato davanti a noi) sulla sezione di Avanguardia operaia di Ottaviano, alle falde del Vesuvio.
ENRICO PUGLIESE
foto: particolare della copertina del libro