Conciliante sull’autorizzazione a procedere, rigido sulla Tav: nei confronti dei soci a 5 Stelle e dei due nodi che li tengono in stato di sofferenza permanente, Salvini adotta linee che sembrano opposte ma che, invece, dietro la facciata, sono complementari.
Una decisione ufficiale sul come votare nella giunta per le autorizzazioni a procedere il M5S ancora non l’ha presa e per il terzo giorno, caso più unico che raro, Gigi Di Maio s’imbavaglia e latita per evitare domande imbarazzanti. A dettare la linea è così un giornalista prestato alla politica e oggi senatore, Gianluigi Paragone: «Non abbiamo mai negato alla giustizia un ministro o un parlamentare».
Parole esplicite ma la fonte, interna/esterna al Movimento, permetterebbe l’eventuale retromarcia. Solo che, dal senatore Sibilia al capogruppo a palazzo Madama, sono in moltissimi a confermare. La bilancia pende ogni ora di più verso il voto a favore dell’autorizzazione, nella convinzione che una scelta diversa non sarebbe accettata dai militanti e neppure condivisa da un nutrito gruppo di senatori, non solo dalle eterne dissidenti Nugnes e Fattori, che hanno già annunciato il loro sì comunque.
In realtà i soli ad aver deciso sono Fi e FdI, che bocceranno la richiesta. Berlusconi è perentorio: «Siamo garantisti e continueremo a esserlo anche se ogni giorno mi auguro che questo governo cada». Giorgia Meloni conferma, mentre il Pd è imbarazzato quasi quanto i 5S, un po’ perché il caso è davvero delicato, molto perché teme il precipitare verso le elezioni.
Eppure proprio il diretto interessato garantisce che non ci sarà comunque crisi: «Sono tranquillo, non ci sono crisi dietro l’angolo e non voglio nemmeno sentirne parlare». Lui stesso, in realtà, una scelta irrevocabile ancora non l’ha fatta. L’eventualità che rinunci all’immunità sollevando così i 5S da ogni responsabilità è ancora in campo e i pentastellati ci sperano: non ce n’è uno che non si dica convinto che il coraggioso Matteo farà proprio questo.
Per il Movimento sarebbe in effetti un bel regalo. Per ora non sembra questa l’intenzione del leghista. Ripete anzi che «giudicherà il Senato se sto facendo bene». Senza dubbio il responsabile degli Interni che secondo il Tribunale dei ministri di Catania deve finire alla sbarra intende sfruttare al massimo la ghiotta occasione propagandistica. Un po’ si atteggia a vittima: «Il Senato sceglierà sull’evidente invasione di campo di qualche giudice di sinistra che vuole fare politica». Un po’ gigioneggia spavaldo: «Prendete le arance se mi portano a San Vittore».
La resa della vicenda in termini elettorali sarà probabilmente alta e già questo basta a mettere di pessimo umore i 5S, che secondo i sondaggi non vanno oltre il 25% a fronte di una Lega che però sinora non è riuscita a sfondare il muro del 31-32% ma a cui proprio la richiesta di mettere Salvini sotto accusa potrebbe offrire lo slancio necessario per farcela. Questo, in fondo, è però ancora il problema minore.
Nell’immediato Salvini manterrà probabilmente la promessa di non far cadere il governo anche se i 5S gli voteranno contro. In caso contrario l’accusa di riproporre il vituperato “stile Berlusconi” gli pioverebbe addosso da tutte le parti, sfregiando seriamente l’immagine che ha cercato di imporre da quando si è insediato al governo. Al contrario, farà il “bel gesto” e si vanterà di anteporre gli interessi del Paese alle diatribe tra partiti.
Ma la Lega non dimenticherà l’affronto. Sposterà il conflitto su un piano diverso e che permetta di sventolare appunto «gli interessi del Paese», dunque, prima di tutto, sulla Tav. Salvini ha deciso di non mollare e lo ha confermato anche ieri: «Stiamo lavorando a un progetto che, come da contratto di governo, tagli gli sprechi e le opere sovrastimate. Però farò di tutto perché l’Italia resti collegata con il resto del mondo e la settimana prossima sarò a Chiomonte. Per aiutare le imprese e l’ambiente, le merci devono viaggiare sui treni». Insomma, tutto si può rimaneggiare ma il tunnel base non si tocca. Sulla Tav, dunque su una bandiera che per la base dell’M5S è irrinunciabile, Di Maio rischia di pagare il conto anche della scelta a favore dell’autorizzazione a procedere.
ANDREA COLOMBO
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