Autonomia differenziata, è troppo presto per rassegnarsi

Chi potrebbe negare che raccogliere ad agosto oltre mezzo milione di firme per il referendum non rappresenti un segno di vitalità e consonanza con il paese?

Dopo l’approvazione dell’autonomia differenziata siamo in una terra di mezzo. La legge Calderoli ha stabilito una procedura per giungere alla devoluzione delle materie alle Regioni che le richiedono. La strada è spianata, restano le intese per completare l’opera.

Sarà così raggiunto un traguardo storico irreversibile. Non spetterà più allo Stato salvaguardare i diritti fondamentali su tutto il territorio nazionale, ma alle singole Regioni in base ai negoziati definiti separatamente con il governo. Sarà la fine della solidarietà nazionale e di ogni idea di Paese unitario.

Un esito posto al riparo anche da eventuali ripensamenti: le intese, che verranno definite dal governo in carica e dall’attuale ministro per le autonomie, verranno approvate da un parlamento silente a maggioranza assoluta e non potranno neppure essere sottoposte a referendum abrogativo. In vigore per l’eternità, nonostante l’ipocrita previsione di una durata decennale delle intese (e poi che succede se non c’è il consenso della regione a recedere?). Tutto è ormai pronto perché si cambi volto alla Repubblica.

Che fare per impedire quest’esito annunciato? Qualcosa si può ancor tentare, ma è necessario attivarsi subito e avere ben presente virtù e limiti entro cui si può operare. Sono misure che sono state discusse più volte da questo giornale, ma è bene ricordarle.

La prima parola spetta alle Regioni. Esse possono portare la legge appena votata difronte alla Consulta. Basta che una regione eserciti quel diritto che l’articolo 127 della Costituzione gli attribuisce. In questo articolo si stabilisce che entro 60 giorni dalla pubblicazione di una legge le Regioni possono promuovere una questione di legittimità per lesioni della propria sfera di competenza.

Sino ad ora abbiamo sentito molti presidenti, soprattutto di Regioni meridionali, alcuni anche di destra, denunciare i rischi che l’adozione delle intese produrrebbero sulla stabilità del Paese. Ora hanno la possibilità di far valere le loro ragioni difronte alla Consulta.

Una verifica sul punto mi sembrerebbe doverosa e persino rispettosa dei reciproci ruoli dello Stato e delle Regioni. Sarebbe invece pessimo il segnale se non ci fossero questi ricorsi. Perché si dimostrerebbe che i rappresentanti istituzionali non sono in grado di reagire facendo invece prevalere calcoli politici o (nel caso delle regioni attualmente governate dalla destra) fedeltà di maggioranza. Una dimostrazione di come l’autonomia regionale abbia operato nel profondo.

Quale sarà l’esito del ricorso, cosa deciderà la Consulta, non può essere detto. Per ora si tratta di far valere tutte le ragioni che determinerebbero violazioni di articoli e principi costituzionali a partire da quello d’eguaglianza e la ritenuta lesione dei diritti fondamentali nelle diverse parti del territorio nazionale. Poi la parola passerà alla Corte.

La seconda strada che è possibile percorrere è quella della richiesta di abrogare la legge appena approvata per via referendaria. Non è una via alternativa alla prima, semmai complementare. Non riguarda la illegittimità costituzionale della legge Calderoli, ma il merito politico.

Può essere attivato da 500mila elettori o da cinque consigli regionali. Anche in questo caso sarebbe fisiologico che una legge tanto controversa e contrastata da vasti settori dell’opinione pubblica provocasse l’attivazione di quello strumento di partecipazione che la Costituzione mette a disposizione: il referendum, appunto.

Vedo che l’intera opposizione, finalmente unita, afferma di voler precorrere questa strada. Bene, una reazione decisa. Qual è lo scandalo se chi non ama una legge così importante vuole sottoporla al giudizio popolare? Anche in questo caso potrebbe dirsi: se non in questo caso, quando?

Deve essere però chiaro che è anche una sfida difficile, non priva di ostacoli, che dunque deve essere affrontata con decisione e cognizione di causa.

Sono le condizioni «di fatto e di diritto» che rendono assai complessa la sfida. In primo luogo, le norme vigenti in materia referendaria impongono tempi brevissimi (entro fine settembre devono essere raccolte le firme o deliberate le richieste da parte delle Regioni).

In secondo luogo, l’ammissibilità della richiesta referendaria non può essere data per scontata, alla luce di una pregressa giurisprudenza costituzionale in realtà assai controversa e per nulla definita. In terzo luogo, la disaffezione dalla politica (le ultime elezioni sono state drammaticamente esplicite) rende il quorum di validità – la partecipazione di almeno la metà degli aventi diritto – estremamente difficile da raggiungere, in assenza di una grande coinvolgimento popolare.

Certo, giunti a questo punto non ci sono tante altre via da percorrere. Dunque, vale la pena provare a scalare la montagna. In fondo, è un percorso fatto per tappe e, se anche non si arrivasse alla vetta, il percorso, se preso sul serio, potrebbe sempre risultare virtuoso, potrebbe comunque servire per uscire dalla tana cui le forze progressiste sembrano essersi rinchiuse, ricominciando a farsi sentire.

Mi spiego. Chi potrà negare che raccogliere ad agosto oltre mezzo milione di firme contro il progetto di autonomia differenziata non rappresenterebbe un segno di vitalità e consonanza delle forze progressiste con il Paese? E già questo, di questi tempi, sarebbe un risultato.

È vero che l’ammissibilità non può essere data per scontata, ma è anche vero che i dubbi avanzati si fondano su una giurisprudenza del tutto criticabile e su argomenti assai fragili.

Ne parleremo altra volta, ma è ben contestabile che possa impedirsi un referendum in base ai due argomenti normalmente avanzati: tanto il collegamento con la finanziaria, che è esclusivamente formale a fronte di una dichiarata invarianza finanziaria; quanto la presunta vincolatività di una legge meramente procedurale a fronte di una disposizione costituzionale che non «obbliga», ma si limita a «permettere» la richiesta di ulteriori forme di autonomia. In ogni caso è una partita che vale la pena giocare.

Poi l’ultima parola spetterà alla Corte, ma a ciascuno il suo ruolo.

Infine, la sfida del quorum, molti realisti non si illudono di poter rompere il muro dell’astensionismo cronico che nel caso del referendum si andrebbe a sommare con quello indotto dai contrari assenteisti pour cause. Sarebbe la sfida più grande. Si può perdere, ma se non si combatte si è già perso.

Un’ultima risposta a chi afferma che in ogni caso il governo potrebbe procedere alle intese anche dopo l’abrogazione della legge Calderoli. Sì è così, ma è un argomento reversibile e che non considera quel che è il «plusvalore simbolico» degli appelli al popolo. La storia dei referendum insegna.

GAETANO AZZARITI

da il manifesto.it

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Analisi e tesi

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