Sono le nove locali di venerdì, tre giorni dopo l’Election Day. Le 15 nostre, quando sulle mappe colorate delle tv la Pennsylvania si fa più azzurra che rossa. È il momento tanto atteso del superamento dei fatidici 270 voti di collegio che consentono d’incoronare Joe Biden 46mo presidente degli Stati Uniti. Il conteggio non si è concluso, ce ne vuole, ma intanto buone notizie arrivano anche dalla Georgia, dall’Arizona, dal Nevada. È un giubilo liberatorio globale. Brindiamo, adesso o quando Joe Biden nella notte proclamerà la vittoria? Che altro può succedere? Le ore, le giornate dopo il voto saranno ricordate come le più caotiche e drammatiche nella storia delle elezioni americane.
Comprese quelle dell’inquietante giallo della Florida nel 2000, quando Bush rubò la vittoria a Gore. Prudenza e pazienza sono d’obbligo. Nella Casa bianca resta asserragliato l’insurgent, il presidente ribelle, come lo definì l’Economist poco dopo il suo insediamento. Ribelle, eversore, anche adesso. Ha «il piglio del combattente», «pensa che gli conviene lottare», fanno filtrare dalla sua cerchia ristretta. I consiglieri, specie il potente capo di gabinetto Mark Meadows, lo spronano a resistere.
Dal fronte opposto, il portavoce della campagna elettorale di Biden, Andrew Bates, mette in chiaro che «sono gli americani a decidere queste elezioni» e avverte che il governo degli Stati uniti è perfettamente in grado di scortare un intruso fuori della Casa bianca». Intanto lo spazio aereo su Wilmington, in Delaware, dove risiede Biden diventa no fly zone, come sulla Casa bianca, e intorno alla sua abitazione la sorveglianza dell’Fbi è quella che vigila sul presidente. Per i servizi di sicurezza è lui, è Biden, il nuovo presidente legittimo degli Stati Uniti.
Un primo tassello dei poteri istituzionali che presiedono al passaggio dei poteri presidenziali è dunque già al suo posto. Stavolta non è un semplice automatismo istituzionale. La misura apre anche simbolicamente il processo della lunga transizione, una diarchia che si concluderà mercoledì 20 gennaio 2021 con il giuramento e l’insediamento del nuovo presidente. Di lì ad allora il presidente ancora in carica sarà un’anatra zoppa e governerà con poteri ridotti all’ordinaria amministrazione, con il suo successore in attesa di subentrargli, un president-elect senza potere, collegati tra loro da una squadra mista incaricata del passaggio dei poteri.
Uno scenario del genere è però impensabile, nelle ore convulse che ancora contrassegnano il dopo elezioni. Se si realizzerà un passaggio dei poteri lineare sarà solo in virtù di un rapporto di forze che a un certo punto oscillerà definitivamente a favore di Biden. Una volta legittimato dai voti contati, i diversi poteri istituzionali prenderanno via via posizione, formalmente o informalmente, a suo sostegno. I servizi di sicurezza lo stanno già facendo, poi i capi delle forze armate, i vertici burocratici. Da questi Trump sarà considerato, qual è, un’anatra zoppa. Allo schieramento dei poteri istituzionali s’unirà poi quello dei poteri forti dell’economia, compresi quelli che hanno investito nella sua rielezione. L’economia del profitto non può seguirlo nel tunnel del disordine.
Non parteciperà al caos di una Washington con due presidenti che non collaborano per la successione ma si scontrano violentemente. La logica del potere, del carro del vincitore, favorisce Biden. Come evitare lo scontro? Nel giro stretto del president-elect si studia una via d’uscita onorevole per Trump. La garanzia di immunità per i reati fiscali e finanziari per i quali rischia letteralmente la galera nello Stato di New York. Per non dire del materiale raccolto per il suo impeachment, bloccato dai repubblicani, e che ritornerà a galla dopo la sua uscita dallo Studio ovale.
Un tragitto del genere è troppo lineare per un personaggio come Trump. Ancora una volta le sue mosse saranno dettate più che dalla logica dei rapporti di potere all’interno del gioco politico dato, dalla sua indole di capopopolo. Come tale ha gestito la presidenza ed è difficile vederlo uscire dalla Casa bianca con le mani in alto, senza neppure aver provato a usare gli ultimi giorni da presidente in carica per mobilitare i suoi seguaci, che sembrano non aspettare altro, esacerbando i toni delle elezioni vinte con la frode e con l’inganno. E non si pensi solo alle frange facinorose della sua base.
E fosse pure costretto a lasciare la Casa Bianca il 20 gennaio, Trump «si dimostrerà più resiliente di quanto ci si aspettasse», osservano Peter Baker e Maggie Haberman sul New York Times, «e sicuramente resterà una forza potente e distruttiva nella vita americana». Questa forza gli deriva evidentemente dai 68 milioni di voti conquistati, cinque in più rispetto a quelli del 2016, e ragionano ancora Baker e Haberman, «ottenendo il 48% del voto popolare ha con sé quasi la metà dell’elettorato nonostante quattro anni segnati da scandali, sconfitte, impeachment e una pandemia che ucciso oltre 233.000 americani».
Una dote di voti e di seguaci così rilevante ha un peso, un valore politico. E d’altra parte, senza di lui, che ne sarà del Partito repubblicano, anche questa volta debitore nei suoi confronti di una buona prestazione elettorale, impensabile senza il suo trascinamento. A rischio è il futuro stesso del Grand Old Party, con la sua mancata rielezione. Il mondo conservatore, non solo le frange dell’ultradestra, lo considereranno ancora il loro leader, ancora più tale perché «cacciato» dalla Casa bianca. Ma tutta questa forza andrà incanalata politicamente, perché non erutti come un vulcano politico. Trump metterà sul piatto della bilancia questa sua forza, se vorrà negoziare la sua uscita «onorevole», come auspicano i dem, o sarà tentato di far saltare il banco. A quel punto i poteri che stanno via via disponendosi al fianco del nuovo presidente, comprese le forze armate, saranno obbligate a posizionarsi e a scendere in campo.
GUIDO MOLTEDO
foto: screenshot