Armi italiane: commesse più piccole, ma si moltiplicano i clienti

Il governo Conte ha autorizzato la vendita a Paesi coinvolti in conflitti e violazioni dei diritti umani, dal Qatar all'Egitto. Nessuno stop agli affari militari con l’Arabia saudita: 816 esportazioni nel 2018

Commesse più piccole ma con un parco clienti più vasto, in gran parte verso Paesi non Nato e non Ue, molti dei quali stravolti da violenti conflitti, tra i quali spiccano Qatar, Pakistan, Turchia, Emirati, India, Egitto. È così che l’Italia ha continuato a esportare volumi consistenti di armi – valore annuo complessivo di 5,2 miliardi di euro, inclusa l’intermediazione – in base alla relazione trasmessa dal governo al Parlamento, seppur tardivamente rispetto alle scadenze della legge 185, sulle autorizzazioni alla vendita concesse nel 2018.

Come nota la Rete Disarmo che ieri ha analizzato i dati, siamo di fronte a un calo rispetto all’anno precedente del 53%, e addirittura del 66% rispetto al 2016, ma il livello storicamente molto alto e la moltiplicazione dei Paesi destinatari è «ancora più preoccupante». Il sensibile calo – scrivono gli analisti della Rete – non deve far pensare a una crisi o un rallentamento nella esportazione di armi italiane perché le aziende stanno comunque incamerando contratti e possibili commesse per un valore doppio rispetto alla effettiva capacità già autorizzata.

E anzi, in base a uno studio del professor Maurizio Simoncelli per Rete Disarmo, pubblicato dal sito Sbilanciamoci!, negli ultimi mesi il governo “del Cambiamento” ha firmato una cinquantina di accordi di cooperazione militare bilaterale, incluso con Niger e Corea, in modo da facilitare ulteriormente l’export di armi aggirando la normativa sulla trasparenza prevista nella legge 185.

Nella relazione del 2018 non figurano poi provvedimenti di sospensioni, revoche o dinieghi per esportazioni di armamenti verso l’Arabia saudita che il governo Conte aveva promesso. Al contrario, sono riportate 11 autorizzazioni per l’Arabia saudita e, in un altro allegato, 816 esportazioni.

Documenti semi nascosti indicano quindi tre forniture del valore di 42.139 mila euro, attribuibili alle bombe aree classe MK80 prodotte dalla fabbrica sarda della Rwm Italia che risalgono ad autorizzazioni rilasciate dal governo Renzi per la maxi fornitura a Riyadh di 19.675 bombe del valore di 411 milioni di euro complessivi.

Si tratta delle micidiali bombe aeree della serie MK prodotte a Domusnovas dalla filiale sarda dell’azienda tedesca Rwm con sede legale a Ghedi, Brescia, che vengono impiegate dall’aeronautica militare saudita per bombardare indiscriminatamente lo Yemen.

Un rapporto Onu del gennaio 2017 ha documentato l’uso di questi ordigni nei bombardamenti di zone abitate da civili in Yemen e un secondo rapporto redatto da un gruppo di esperti delle Nazioni unite ha dichiarato che questi raid possono costituire «crimini di guerra». Rete Disarmo ricorda che, insieme ad altre due ong, Mwatana e Ecchr, ha denunciato alla magistratura l’illegalità di queste forniture belliche. L’Egitto del generale Al-Sisi risulta il terzo acquirente di armamenti italiani tra gli Stati non appartenenti a Ue o Nato.

Negli ultimi anni verso il Paese dove ha trovato la morte ancora senza giustizia il ricercatore italiano Giulio Regeni sono state rilasciate 61 licenze per esportazioni di sistemi militari (valore complessivo di 31.400.207 euro).

Dalla relazione – mette in rilievo Rete Disarmo – non è possibile conoscere gli specifici modelli esportati, ma è documentata l’autorizzazione nel 2018 di «armi e armi automatiche di calibro uguale o inferiore a 12,7 mm», di «bombe, siluri, razzi, missili e accessori», di «apparecchiature per la direzione del tiro», di «apparecchiature elettroniche» e di «software».

Nel 2013 il Consiglio degli Affari esteri dell’Ue aveva annunciato la decisione degli Stati membri di «sospendere le licenze di esportazione all’Egitto di ogni tipo di materiale che possa essere utilizzato per la repressione interna», comprensiva di brutali torture come quelle che ha subito Giulio Regeni.

RACHELE GONNELLI

da il manifesto.it

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