“Col parabello in spalla, caricato a palla, sempre bene armato, paura non ho…” canta una vecchia canzone partigiana. Ma quello era un fucile diverso da quelli mostrati oggi in foto che altro non sono se non armi di distrazione di massa.
Non si tratta di rinverdire qualche luogo comune da più parti: si tratta di comprendere che è molto facile, persino elementare concentrare l’attenzione su una fotografia che ritrae un rappresentante del governo della Repubblica Italiana che tiene in mano un’arma e che la foto diviene, secondo coloro che gli promuovono l'”immagine” (quindi i propagandisti, detto in termini relativamente semplici), un motivo di concentrazione mediatica per ore, giorni, su tutti i principali siti Internet, sulla grande stampa nazionale e, ovviamente, rimbalzando sui “social” assolve finalmente il ruolo cui è stata predestinata l’icona.
Le funzioni mediatiche di una foto di quel genere sono diverse ma hanno tutte lo stesso scopo: esaltare la figura del ministro, portarla all’attenzione spasmodicamente ossessiva di un cannibalismo da condivisione di contenuti che diventa irrefrenabile e che è, e deve essere considerata, una patologia dell’alienazione, della dissociazione umana tra problematiche reali e qualcosa che va oltre la “falsa notizia” che ipnotizza, incanta e distrae naturalmente.
Qui la distrazione, come effetto deformante la realtà, è più sottile, subdola, meno marcata: commento e foto si legano e formano un tutt’uno, una combinazione di generazione di disprezzo da un lato, di magica esaltazione del “capitano” dall’altro lato.
Le fazioni così possono tornare a scontrarsi, il popolo ha il suo nemico, creato ad arte in questo frangente e purtroppo reale quando è al di fuori della mediaticità e “lavora” per il Paese.
E’ lì che fa danni il “fenomeno”. La foto con il parabello moderno serve a non farci parlare delle problematiche del lavoro, di quelle economiche che investono il Paese e dei tanti problemi che questo governo, giorno dopo giorno, somma su sé medesimo esponendo al Paese tutte le contraddizioni che emergono da scontri di potere e da inchieste giudiziarie su fronti diversi che si tengono in equilibrio perché tra poco più di un mese si passa sotto le forche caudine delle elezioni sia locali sia europee.
Così, mentre la disoccupazione aumenta e le industrie italiane lamentano ancora oggi, dalle colonne de “La Stampa”, una retrocessione che aumenta il ricorso agli ammortizzatori sociali, mentre si avvicina il 25 aprile e le istituzioni repubblicane tutte dovrebbero accoglierlo come festa della Liberazione, la nostra sola attenzione nemmeno va rivolta agli oltre 200 morti e 500 feriti dello Sri Lanka massacrati da sette kamikaze che, con camminata disinvolta, entrano con degli zainetti in spalla in chiesa e seminano il terrore, no… la nostra attenzione è tutta sulla foto del ministro con il fucile.
Vedete? Ne parliamo persino qui pur criticamente e ci occupa un intero editoriale. Vuol dire che la distorsione mediatica funziona e punge i gangli più reconditi di un sistema debolissimo, indifeso, privo di un immunità che dovrebbe derivargli da una coscienza sociale e politica (oltre che civica e civile) di lunga data, costituzionalmente intesa come tale.
La nostra democrazia viene sempre meno sotto i colpi di un progressivo adeguamento ad un regime di generale sconforto, di appiattimento delle menti su una normalità di atti e di parole che dovrebbero invece suscitare una generale indignazione, una condanna e uno stigma naturali per chi vive in una Repubblica nata dalla lotta al nazifascismo.
Invece noi permettiamo che si intitolino strade ai massacratori dei partigiani, che sindaci vietino le celebrazioni del 25 aprile per due anni, che si cambino i percorsi dei cortei di fiaccolate per la presenza delle sedi dei neofascisti in determinati quartieri, che i giornalisti, nel nome della libertà di stampa e del diritto alla parola per tutti, presenzino a raduni e conferenze di forze apertamente autoritarie che, se avessero il potere, sovvertirebbero la Repubblica e farebbero dell’Italia uno Stato di polizia, di militarismo, di repressione del dissenso e di autarchia economica.
Nel nome sacro di un illuminismo divenuto più paternalistico che paterno, invochiamo Voltaire, Rousseau e pensiamo di essere giusti quando consentiamo a questi fascisti di parlare, di avere “cittadinanza” politica nella Repubblica: dalle piazze alle schede elettorali.
Invece dovremmo avvertire tutto questo, foto compresa col parabello non in spalla, come un allarme per le fondamenta democratiche e capire per tempo che un argine va posto, che non è più tollerabile ascoltare insulti provenire dal governo verso la maggioranza del popolo italiano: perché, lo voglia o no, nessuna forza di governo, da sola, ha la maggioranza nemmeno lontanamente relativa della delega di consenso dell’elettorato attivo.
Solo il megafono utile, utilitaristico dei mezzi di informazione permette ad una foto di diventare protagonista non dell’anno, ma dell’attenzione disattenta di un popolo sfinito dalle traversie di una politica indegna da troppi anni per essere chiamata tale: ma gli affarismi non sono finiti, le conventicole di potere nemmeno. Il potere stesso le fa nascere e crescere e solo un radicale capovolgimento di un sistema economico come quello in cui viviamo potrà spazzare via tutto questo ciarpame.
Ma finché la foto sarà la protagonista del giorno un po’ ovunque e diventerà l’icona di Pasqua oggi e di Natale domani, allora vorrà dire che il tempo per capovolgere la società non è nemmeno all’orizzonte e noi possiamo solamente ricostruire gli strumenti di una cassetta degli attrezzi che serve a rimettere in piedi quel po’ di critica sociale e civile necessaria per far vivere la speranza che al centro di tutto torni la “questione sociale”, torni il lavoro in conflitto con il padronato e che finalmente gli imprenditori siano chiamati col loro nome, senza edulcoramenti: sfruttatori del lavoro altrui.
Intanto andiamo a festeggiare il 25 aprile, senza ignorare le spallucce fatte dal ministro. Per quelle non esiste foto, ma solo una dichiarazione che ricalca bene i confini culturali e sociali del governo.https://www.lasinistraquotidiana.it/armi-di-distrazione-di-massa-nellepoca-del-sovranismo/
Io senza “parabello in spalla”. Scusatemi, ma resto un non-partigiano (per nascita al di fuori del tempo di guerra), un resistente diciamo… senza armi, come Lidia Menapace. Spero che la scelta di non voler mai imbracciare un fucile o tenere un mano una pistola o qualunque altra arma, la capirete.
Sembra che oggi, se non ti doti di un’arma sei un vigliacco che non vuole difendere “casa propria”. A quale casa ci si riferisca, poi, se potete, ditemelo voi…
MARCO SFERINI
foto tratta da Pixabay