Nel 1640 venne ritrovata a Tiriolo, nella provincia di Catanzaro, una antichissima iscrizione latina. Tradotta, è passata alla storia come “Senatus consultum de Bacchanalibus“. Si trattava, nella sostanza, di una decisione dei padri coscritti di cui Livio ci parla nella sua monumentale storia di Roma in un breve passo del XXXIX libro:
«L’anno seguente, i consoli Spurio Postumio Albino e Quinto Marcio Filippo furono distolti dall’esercito, e dalla direzione delle operazioni belliche nelle province, per la repressione di una congiura interna. […] Da entrambi i consoli fu decretata un’inchiesta sulle cospirazioni segrete.
Uno sconosciuto greco giunse la prima volta in Etruria, senza nessuna conoscenza di quelle arti che quel popolo, di gran lunga il più erudito di tutti, ha introdotto; un sacerdote e indovino, e non uno che con riti pubblici, e professando apertamente il suo mestiere e la sua dottrina, inspirasse negli animi concetti balzani, ma custode di riti che si svolgevano al riparo delle tenebre. Si trattava di misteri, che in un primo momento furono rivelati a pochi, ma che poi cominciarono a spargersi per bocca di uomini e donne.
Furono aggiunti alle pratiche religiose i piaceri del vino e del banchetto, perché gli animi dei più ne fossero attratti. Dopo che il vino ebbe infiammato gli animi, e le tenebre, e gli uomini mescolati alle donne, e quelle di giovane età con i più vecchi, ebbero cancellato ogni confine del pudore, subito cominciarono a esser commesse nefandezze di ogni genere, perché ciascuno è pronto a soddisfare i piaceri verso i quali è per natura di più incline libidine.
E non uno solo era il genere di colpa, le violenze colpivano senza distinzione uomini liberi e donne; ma falsi testimoni, falsificazione di sigilli, testamenti e prove uscivano dalla stessa bottega, e sempre di lì venefici e massacri interni, talmente segreti che talvolta non rimanevano neppure i corpi per la sepoltura. Molto si osava con dolo, di più con la violenza. La violenza dilagava indisturbata perché, coperti dalle urla e dallo strepito dei timpani e dei cembali, nessun grido d’aiuto di cittadini poteva essere udito in mezzo agli stupri e alle stragi».
Dall’Etruria, quindi, i riti in omaggio a Dioniso (o Bacco) si erano diffusi per tutta la regione italica e la preoccupazione del Senato era che questi potessero in qualche modo nascondere degli intenti cospirativi contro la repubblica. I baccanali si tengono di notte, lontano dal centro delle città, in ambienti silvani, in mezzo alle rovine di vecchie abitazioni o templi. La connotazione orgiastica che li ispira è l’ebbrezza dell’oltrepassare la percezione sensoriale guidata dalla razionalità.
Chi vi partecipa imita le baccanti che, tirso in mano e in frenetiche corse agresti, precedevano la venuta del dio a bordo di un carro infiorato, trainato da due fiere possenti. Il mito ci restituisce una traslitterazione simbolica nell’oggi di una ricerca dell’al di là di un principio di piacere che preferisce la dimenticanza del momento e si getta, anima e corpo, mente e cuore, nella indeterminazione e nella volubilità del depensamento, del distacco dal possibile, dal concreto.
Il tempo assume una particolarità di non secondo rilievo nei riti bacchici: sembra dilatarsi tanto da scomparire. L’effetto del vino è l’anestetizzazione di tutto ciò che ci incatena alla ricerca di un senso dell’esistenza che, qui, viene tralasciato e derubricato a inezia, minimizzato proprio grazie alla contrapposizione nietzschiana tra apollineo e dionisiaco. Nella celebre opera del filosofo tedesco, “La nascita della tragedia“, vi è esattamente la ritmica, incessante dualità – rivalità tra la razionalità lucente del dio del Sole, che fa risplendere ovunque possibile il lume dell’intelletto, e la penombra delle notti misteriose dei baccanali.
Sembrano due mondi contrapposti, eppure tra apollineità e dionisismo si intrecciano proprio nella responsabilità positiva della nascita della tragedia greca che pullula di ragione e passione, di intelletto e visceralità, di sguardo verso la luce e fascinazione del buio. Non è, pertanto, così poi accreditata la narrazione di una antiteticità storica tra i due miti, tra i due filoni di una religiosità politestica greca sulla base della quale si formavano adepti, scuole, filoni culturali e persino partiti pseudopolitici, meglio riferibili col concetto di “fazioni“.
I baccanali degenerano, come racconta Livio, nella violenza più sfrenata: stupri, uccisioni che eccedono il desiderio e fanno del sangue qualcosa che copre un po’ tutto, rovinando l’ispirazione prima dell’eccesso non per l’eccesso stesso, ma per l’oblio del resto. Dello Stato romano, della società, delle convenzioni soprattutto. Chi si lascia scendere nell’abisso dell’inebriatezza, tramite la seduzione della fisicità, in una condivisione di pulsioni che trascendono la passione amorosa in quanto tale, evade dal carcere della vita che non riesce a risolvere e dimentica.
Dimentica e passa all’inesistenza di quel sé stesso, divenendo altro, depersonalizzandosi e tramutandosi quasi in un corpo che si esprime con il massimo della voglia di sensualità e di godimento, unica possibilità di trovare un perché nell’attimo fuggente del qui e ora che si lascia sempre alle spalle l’appena trascorso e non riesce ad intravedere il momento seguente. L’ordine apollineo del mondo è sconvolto dalla rottura della forma che cede il passo alla sostanza più intrinsecamente intima dell’inesprimibile recondito inconscio in una veglia continua che obbliga alla repressione di sé stessi ogni giorno.
Dioniso, dunque, unisce alla danza e alla musica l’ereticità dell’anticivile, dell’antisociale, pur senza privilegiare un rapporto diretto con un egoismo che separa piuttosto che unire. I baccanali sono unioni: empatie che trascendono l’empatia stessa; sono congressi carnali in cui la molteplicità ha un senso e una ragione sragionevole proprio nell’annullamento dell’io cosciente. In quel di Delfi i due culti, apollineo e dionisiaco si passano – per così dire – il testimone in un rapporto con la società che non li esclude. Prescindendo persino dal mito stesso che è, in allora, religione a tutti gli effetti.
Si innalzano templi, li si atterrano, si sostituiscono statue con altre statue e si sacrifica agli dei. Poi si decide che il miglior sacrificio è compenetrare parte razionale diurna e parte emozionale notturna: i due risvolti dell’eterno confronto tra esteriorità ed interiorità, tra apparire ed essere, tra la sembianza e la concretezza dell’esistenza di ognuno di noi. Il rito dionisiaco è l’emersione dell’angolo buio dell’inconscio che viene sussunto nella più generale espressione manifesta dei sensi e delle passioni. La repressione formale che se ne fa nel corso della vita cosiddetta “reale” e quotidiana, qui deve cedere il passo.
Lacci e costrizioni dell’irregimentamento sociale si sciolgono dai polsi, delle menti e dalle caviglie per permettere, tramite lo stordimento alcolico, di aggiungere un qualcosa in più alla dolcezza ambrosia del turbamento dato dall’incontro dei corpi, dalle emozioni che si susseguono tocco dopo tocco, carezza dopo carezza, bacio dopo bacio. La materialità del fisico assurge ad un livello differente rispetto alla considerazione del mero rapporto sessuale. La carnalità è la premessa di un godimento a tutto tondo, di una sublimazione delle percezioni e del piacere.
La degenerazione delle feste bacchiche è, ovviamente, una strumentalizzazione tutta razionale e terribilmente reale rispetto alla sua originaria ed originale affermazione come culto estatico del dio. Nietzsche individua nel confronto tra Apollo e Dioniso la lotta del mondo per intero: in questa alternanza, in questa dualità si esprime la capacità artistica di produrre opere che sappiano produrre una sintesi tra quelli che appaiono, ingiustamente, soltanto come opposti. Sono antitetici per riferimento sovrannaturale, ma nella sostanziazione del mito, nella sua traduzione psicologica, sono tanto contrari quanto necessari l’uno all’altro.
Da questo specchiarsi vicendevole nasce la tragedia greca nella sua più straordinaria caratterizzazione letteraria, artistica, pseudo-teatrale e anche storica. Sulla razionalità apollinea e sulla liberazione dei sensi dai sensi di colpa e dalle regole formali che sono l’essenza del dionisismo, si fonda la particolarità dell’esistenza: l’ambivalenza è imprescindibile per la stimolazione del genio e della sregolatezza. L’uno senza l’altra non possono dirsi né l’uno né l’altra. Separati e scissi fra loro, non saprebbero riconoscersi, finirebbero col cercare una identità che, invece, nel confronto-scontro ritrovano pienamente.
Questi due princìpi fondativi della realtà anche oggi possono essere accostati tanto alla parte razionale dell’espressione artistica quanto a quella completamente astratta che proviene dall’istintività di chi crea. Ma mai dal nulla. Essendo parlati e vissuti da altre esperienze, da significati in bocca a noi significanti, noi siamo nell’eterno ritorno, nel principio che finisce e nella fine che ricomincia. Siamo, come in quella che, somigliante al chiaroscuro dei luoghi in cui si tengono i baccanali, è stata definita la “penombra” della filosofia nietzschiana (Fink): la razionalità dell’arte esce dalla ristretta perimetrazione della bellezza convenzionale e ricorda al mondo che l’esistenza è fenomeno estetico.
Noi, infatti, siamo estasiati dalla magnificenza della natura e, proprio da questo stupore, dall’incomprensibile, troviamo una ragione per sospettare, per dubitare dell’esistenza di un dio, come di altri mille dei o di centomila ragioni per cui tutto ciò che esiste è. Che non possa non essere, è un presupposto filosofico che lasciamo a Parmenide, visto che l’ontologia, di per sé, non fornisce nessuna risoluzione del problema dell’essere né tanto meno dell’esserci. La forma artistica, tradotta nelle tante discipline in cui si invera, scultura, architettura, pittura, musica, poesia, letteratura, ecc., è la sublimazione della diade che si crea tra apollineo e dionisiaco.
Lo studio nietzschiano della tragedia greca ripercorre i passaggi dalla dimensione dell’ebbrezza bacchica ad un razionalismo soleggiante che si ritrova molto di più in Euripide e Socrate rispetto ad Eschilo e Sofocle. C’è in questa narrazione una presa di consapevolezza della mutevolezza delle arti in quanto inscindibile caratterialità estetica dell’interiorità recondita dell’animo umano, del pensiero, così come degli istinti primordiali. Tra tutti, la passione, il desiderio, l’anelito al piacere del piacere.
Non tanto un’aspirazione umana, quanto una necessità naturale che ci pervade è la voglia della voglia e, quindi, la continua, spasmodica spinta verso un ignoto che immginiamo e che ci seduce. L’orgiastico avvinghiarsi dei corpi non esclude per niente la bellezza estetica del sesso in quanto tale. Potrebbe sembrarne una parodia quasi drammatica, soprattutto se, come scrive Livio, i baccanali finiscono nel delitto, nella violenza brutale, nella morte. Ma l’eccesso non è questo. L’eccesso è vita che non comprende la vita stessa ma, non per questo, la intende annullare o negarla al punto tale da impedire di potersi continuare a fare domande in merito per altri rispetto a noi.
La tragedia greca, dunque, lo spirito apollineo e il “fascino dionisiaco” (così lo appella Nietzsche) vanno di pari passi anche quando sembrano essere in contrasto fra loro, in particolare in un più ampio eterogenetico mondo delle arti. Non c’è πόλεμος (“polemos“), non c’è guerra ma conflitto aperto, disarmato e non disarmante: si scrutano i presunti opposti, quel dualismo di cui abbisogna la lotta costante delle nostre ataviche contraddizioni interiori, tutte animalescamente umane, perché simbiosi tra razionale e istintuale.
MARCO SFERINI
15 dicembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria