Ci sarà ovviamente chi riterrà “ideologico” parlare di anticapitalismo (e di antispecismo) nel trattare del punto di non ritorno per la riconversione ambientale e per la salvaguardia di tutte le specie viventi sul pianeta.
Il ragionamento potrà anche avere questi tratti, ma per quanto si analizzi il disastro globale, non se ne esce se non si ripercorre al contrario la strada che l’umanità fino ad oggi ha tracciato, soprattutto nei secoli dell’industrializzazione, dell’accelerazione liberista di un regime economico che ha fatto dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sugli animali e dell’uomo sull’ambiente il fulcro della sua azione espansiva e anche di resistenza al cambiamento.
Per secoli gli animali umani (che saremmo noi), dopo la scoperta dei carbon fossili come fonte di produzione d’energia, hanno devastato interi continenti per estrarre ciò che occorreva per mantenere vivo questo mercato. Hanno persino rallentato il progresso scientifico, le scoperte che avrebbero permesso già da decine di anni di escludere dalle nostre attività quotidiane l’uso di materiali inquinanti. Ed hanno continuato a sfruttare e a far morire a decine di migliaia i lavoratori impiegati nelle miniere: ragazzini ed adulti, tutti coperti di fuliggine, malati di tubercolosi, schiantati dalle fatiche.
Per secoli gli animali umani (che saremmo sempre noi) hanno fatto spazio ad attività produttive intensive, depredando i suoli, disboscando i polmoni verdi che servono a tutti gli animali ed esseri viventi per respirare, semplicemente per vivere: hanno costruito dei grandi, spesso invisibili, lager dove milioni di galline, pecore, mucche, tacchini, maiali e persino asini e cavalli sono stati non “allevati” ma segregati per tutta la loro vita. Un’esistenza breve, anzi regolata esclusivamente dai cicli di produzione, dalla domanda di carne da parte della popolazione, indotta così a preferire una dieta ricca di proteine e grassi animali, nocivi tre volte: ai poveri esseri viventi uccisi per il nostro gusto, all’ambiente ed alla salute di ciascuno di noi.
La violenza, che la specie umana ha riversato sull’intero pianeta fin dalla sua comparsa, contro un ecosistema che nel corso degli ultimi cinquant’anni si è impoverito come nel corso di duemila anni, con un aumento della temperatura mai visto e che è tra le cause degli sconvolgimenti atmosferici anche di questa estate fatta di escursioni termiche impressionanti.
Il rapporto dell’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) non lascia spazio ad interpretazioni di sorta. Denuncia ciò che ormai è evidente anche per i più riottosi, per i negazionisti dei mutamenti climatici, per quei pochi scienziati che si ostinano a difendere un modello di inviluppo catastrofico sostenuto solo dalle multinazionali per i propri (cinici) interessi.
Se entro dieci anni non si ridurranno drasticamente le emissioni di gas serra, se non si convertirà tutta la produzione industriale, oggi alimentata a fossile, in una produzione veramente ecologica, ad impatto quasi zero sull’ecosistema, è ormai certo che dal 2040 il punto di non ritorno sarà veramente sorpassato e nei decenni a venire, nella seconda metà di questo secolo, gli effetti tanto sull’ambiente quanto sulla salute di tutti gli animali, sia umani sia non umani, saranno devastanti. Non è catastrofismo, ma un allarme tardivo, al limite della disperazione, ascoltato soltanto da una ragazzina con un impermeabile giallo che marcia per le vie del mondo con il suo cartello in mano.
Per quanto si faccia appello ai governi ed alle industrie mondiali di vedere la situazione, di rendersene conto, ogni buona intenzione finisce per essere ovviamente inascoltata, perché ingenuamente noi chiediamo a chi ha dei privilegi di accantonarli, di metterli da parte per far spazio ad una logica rivoluzionaria. Necessariamente tale: non comunista, ma indubbiamente anticapitalista se si vuole salvare il pianeta, perché non esiste altra strada se non quella di mettere fine alla proprietà privata dei mezzi di produzione, ed a tutto quello che di conseguenza comporta, per spezzare la tirannia del profitto e dell’accumulazione del capitale.
Sappiamo che un processo economico non è qualcosa di astratto ma, anzi, di fortemente concreto: ma la volontà umana non basta a invertire la rotta. Non si mette fine ad un secolare sistema di sfruttamento delle energie e delle risorse, umane, animali ed ambientali, con dei semplici appelli ai governi che sono al servizio della struttura dominante, quindi del liberismo capitalista. Per contrastare e superare la forza del mercato serve una forza uguale e contraria: quella di una nuova unità tra interessi sociali, interessi civili, morali e ambientali. Diritti dei lavoratori, diritti animali e diritti ecologici (che ha Gaia per prima), sono un trittico che va considerato sincreticamente: non è più possibile separare la lotta ambientalista dalla lotta di classe.
Se si vuole veramente evitare la catastrofe ambientale, si deve prendere in considerazione il superamento dell’asetticismo politico – ideologico imposto dalla trasversalità di una lotta che è necessariamente di parte, ma che alla fine riguarda l’80% dell’animalità (intesa come connubio tra animali umani e animali non umani) e il 100% dell’ambiente in cui tutte e tutti viviamo o, forse, sarebbe meglio dire proviamo a sopravvivere.
Questa triplice coscienza, anticapitalista, antispecista ed ecologista, è una matrioska che include problemi e piani di problemi che si vanno sempre più intersecando e che finiranno per sovrapporsi quando però sarà troppo tardi per operare un cambiamento uguale e contrario a quello innescato dalla rivoluzione industriale nel ‘700 ed accelerato prepotentemente nel ‘900.
Non riusciremo mai ad avere una coscienza sociale così alta e definita, tale da permetterci di contrastare il capitalismo (che resisterà ad ogni tentativo di mutamento dal basso) se non parleremo un linguaggio radicalmente nuovo, se non ci saremo abituati al fatto che ogni essere vivente ha diritto di poter esistere senza essere minacciato dalla specie umana che, per il fatto di essere diversamente intelligente, si ritiene in diritto di appropriarsi di ogni altra vita presente sul pianeta e di farne ciò che più le aggrada per preservare la sola propria esistenza.
La proprietà privata dei mezzi di produzione non è la sola proprietà che va superata, per il bene collettivo, per una rinascita del pianeta Terra. Bisognerà superare l’antropocentrismo che alimenta la mentalità proprietaria, l’ancestralità di questa considerazione del valore affidato solamente al possesso piuttosto che alla condivisione. La rivoluzione ecologica, pertanto, non può non essere una rivoluzione contro ogni privatizzazione, contro ogni accumulazione di profitto, contro ogni economia che mantenga intatti i privilegi di un gruppo ristretto di esseri umani a discapito del 99% di tutti gli altri esseri viventi.
Adesso sentiamo ancora tanto caldo e, forse, è possibile, come dicono gli scienziati, mettere in campo tutto ciò che è necessario per invertire la rotta. Quando soffocheremo per la mancanza di aria, sapremo che non sarà per gli effetti del Covid-19, ma perché avremo abusato di una casa che non abbiamo saputo gestire. La vittoria dell’egoismo capitalista e specista non è modernità: è solo un passo ulteriore verso la fine dell’umanità e dell’animalità nel suo complesso.
Non possiamo confidare nel buon senso, nel senso di responsabilità di industriali e capi di governo. Dobbiamo invece fare affidamento alla coscienza singola e di massa, al ritorno di una criticità diffusa, di un sentire comune in difesa della vita: qualunque forma abbia, qualunque sistema nervoso possieda, a qualunque latitudine o longitudine stia. Dobbiamo salvare non l’umanità soltanto, altrimenti non usciremo mai dalla spirale dell’egoismo proprietario ed autoreferenziale in cui da millenni siamo caduti. Dobbiamo usare la nostra diversità intellettiva, metterla al servizio del pianeta e degli altri esseri viventi.
Primum vivere e poi, forse, potremo farci perdonare le migliaia di anni in cui abbiamo sfruttato tutto e tutti solo per vivere “meglio”. Il debito che abbiamo nei confronti degli altri animali e dell’ambiente è così grande che, solo consegnando all’incredulità delle future generazioni un passato così orrendo, potremo dire di aver imparato a vivere senza scannarci per le differenze, senza voglia di potere, di supremazia, di sopraffazione, di dominio e, quindi, di proprietà.
Al lavoro, il tempo sta per scadere…
MARCO SFERINI
10 agosto 2021
Foto di GangsterBabe da Pixabay