La vittoria del 2016, Donald Trump la conseguì con un’escalation, proprio a ridosso del voto, dei toni oltraggiosi che avevano contrassegnato la sua campagna elettorale, abbattendo definitivamente i recinti fino ad allora considerati invalicabili non solo del politically correct ma della decenza stessa.
Trump oggi è convinto che l’incredibile performance di due anni fa possa essere ripetuta per vincere le elezioni di medio termine. Con l’identico copione. Andando all’attacco.
Ne è talmente convinto che ha impostato la campagna elettorale interamente sulla sua persona, una campagna che avrebbe dovuto essere del partito innanzitutto, visto che il voto interessa centinaia di candidati alla camera e al senato e migliaia di candidati in elezioni statali e locali. Ma le loro identità, le loro proposte sono passate decisamente in secondo piano rispetto al protagonista vero il cui nome non è sulla scheda elettorale ma che, nelle sue parole, è «sulla scheda perché è un referendum su di me».
Referendum è la parola più usata per definire queste elezioni di medio termine, un voto che è sempre stato un test cruciale per valutare un presidente a metà del suo mandato, pur essendo però il rapporto di forze tra i due maggiori partiti nel Congresso la posta principale sul tavolo. Questa volta no, è molto di più che un test, pur importante. Investe interamente la figura del presidente. Anche perché il Partito repubblicano non esiste più come tale, non c’è più il Grand Old Party di Reagan, dei Bush, di McCain, di Romney. Non ha identità o direzione di marcia, se non quelle determinate da un outsider che l’ha “scalato”, s’è imposto su di esso, contro la volontà della vecchia guardia. Ma anche dei nuovi ras, come Ted Cruz, che l’aveva definito un «bugiardo patologico», un «piagnucolone codardo» nelle primarie, e oggi è costretto a mendicare, anche lui, il suo aiuto, per conservare il seggio senatoriale in Texas minacciato da Beto O’Rourke, fino a ieri uno sconosciuto politico locale e oggi star acclamata dei democratici.
Un referendum, dunque. Sul trumpismo, «se sia un un’anomalia storica o il riflesso dell’America d’oggi», come scrive il Washington Post.
Per questo le energie e le risorse impegnate per le elezioni di oggi sono fuori misura. Secondo le proiezioni del Center for Responsive Politics, alla fine della campagna elettorale, saranno stati spesi oltre 5 miliardi di dollari: le elezioni per il Congresso più costose della storia americana.
Per ripetere l’exploit del novembre 2016, Trump ha seguito lo stesso canovaccio. Pur in presenza di un’economia in crescita – 250.000 posti in più a ottobre, disoccupazione al 3.7% – quasi non ne ha fatto menzione nei comizi, per concentrare tutta la sua carica incendiaria sulla paura. Più che a cercare consensi tra gli elettori in bilico, è sembrato interessato a galvanizzare e a mobilitare la sua base con dosi massicce di razzismo, bugie, manipolazioni, paranoie complottistiche, il cui sottotesto unificante è la connessione tra immigrazione («invasione») e democratici che la favoriscono se non addirittura l’organizzano (come ha ripetuto ossessivamente a proposito della carovana di centroamericani in marcia verso il confine Usa-Messico).
La priorità di Trump è che, di quelli che lo votarono nel 2016, in tanti tornino alle urne e che molti di loro si diano da fare per convincere altri elettori a unirsi nella crociata. I suoi comizi, le sue esternazioni, hanno avuto questo obiettivo principale, sapendo che l’affluenza sarà un fattore decisivo. Tanto più che il gran numero di elettori identificati come democratici che hanno già votato nei seggi dedicati all’early voting fa prevedere una partecipazione molto alta in queste Midterms, molto più delle precedenti. Specie, appunto, tra i democratici.
Tanto che lo stesso Trump è sembrato in certi momenti rassegnato a una probabile vittoria democratica alla House, come peraltro indica la maggioranza dei sondaggi: «It could happen, potrebbe succedere.
L’impressione netta di un voto destinato a segnare uno spartiacque storico è data anche dalla partecipazione diretta alla campagna elettorale di Obama, che nei comizi Trump chiama Barack H. (Hussein) Obama, e di Joe Biden, un coinvolgimento senza precedenti nell’arena politica da parte di un ex-presidente e di un ex-vice presidente.
Se l’esito più probabile dovesse avverarsi – la camera ai democratici, il senato ai repubblicani – sarebbe un “pareggio” che vale una vittoria per i dem. Un evidente duro colpo politico al trumpismo, non un colpo mortale, nell’immediato. S’aprirebbe uno scenario perfino più inedito e imprevedibile di quanto non si sia visto nei due anni trascorsi. Un’America ancora più divisa, paralizzata da un presidente, di fatto, precocemente ridotto ad anatra zoppa, ma determinato a sopravvivere. Avendo però di nuovo contro il partito che non è mai stato il suo ma che è lo è diventato per forza e infine per convenienza, e che farà pesare su di lui la sua sconfitta. E avendo contro un Partito democratico galvanizzato e lanciato verso la rivincita del 2020.
Alla vittoria sua e dei repubblicani nessun democratico, nessun progressista in America e all’estero (mai un voto per il Congresso è stato così seguito in tutto il mondo), vuole davvero pensare, nella convinzione che essa sarebbe ancora più devastante di quella del 2016, per le sorti stesse della democrazia americana e per quelle del mondo.
GUIDO MOLTEDO
foto tratta da Pixabay