C’è un profumo di geografia straboniana e di historia alla Diodoro Siculo nel viaggio narrato da Paolo Rumiz da Sant’Antioco in Sardegna fino a formare un cerchio magico di eventi che vanno oltre il tunnel del tempo, ben al di là della quarta dimensione e che permettono all’autore, con l’esperienza della sua vita nell’oggi di viverne altre e di essere spettatore presente, ed assente al tempo stesso, di quel mondo che da duemila anni non esiste più.
Almeno non come era allora. Perché qualcosa si è salvato. Non tanto le rovine della Cartagine che il Senato dello Stato romano volle distruggere e radere al suolo. Non tanto nemmeno l’Anfiteatro flavio, che pure in gran parte è ancora lì a testimoniare la potenza dell’Urbe. Nemmeno l’Ara pacis di Augusto, messa sotto teca, protetta dalle intemperie per darle una eternità forse impossibile.
La storia che Rumiz racconta da “viator” è una commistione di usi, costumi, di scoperte di ruderi e di monumenti, di usi, costumi, pietanze, cibi di ogni tipo. Sapori, odori, miasmi del tempo perduto, sensazioni e miscugli di foschie delle Alpi passate con i sontuosi passi degli elefanti africani, si confondono in una perfetta armonia di suggestioni che fanno fare, insieme all’autore, il viaggio con lui.
“Annibale” (Feltrinelli, 2013, quinta edizione 2017) è la meta da raggiungere; o, forse, per meglio dire è la costante presenza, il convitato di pietra che accompagna ogni passo dalle coste spagnole, dove il figlio Michele suggerisce al padre Paolo di percorrere ora lui i passi suoi, di invertire la rotta della vita, fino ai monti della Turchia e dell’Armenia, dove si perdono le mitologiche narrazioni bibliche, dove dovrebbe stare l’Arca delle arche, quella che si salvò dal diluvio universale.
La meticolosa puntualizzazione giornalistica di un indagatore del passato, completamente assorbito dalla straordinarietà del meticciato interculturale del presente nel bacino dell’ex Mare Nostrum, permette di andare alla scoperta di tutta una serie di particolarità locali che, tuttavia, non hanno alcun significato se non inserite nei contesti di un mondo globale che, nonostante ciò, rimane saldamente ancorato alla sua Storia: decisamente con la esse maiuscola.
Il generale cartaginese è anche qui, inevitabilmente, dibattito di confronto fra le grandezze: lui o Giulio Cesare? Lui o, meglio ancora, Scipione detto poi l'”Africano“? Chi fu il condottiero, lo stratega e il politico più grande. Non c’è giovane studente che non ne abbia sentito parlare almeno una volta, anche quello più lucignolescamente lazzarone, fantasticamente anarchico e rabbioso verso l’imposizione, vero il potere e l’incapacità di tramettere la conoscenza vera.
Segno che tutti e tre sono stati grandi. A loro modo. Ad Annibale si rimproverano gli “ozi di Capua“, a Cesare la dittatura perpetua, a Scipione di aver azzardato a Zama tutto il destino di una guerra. Lo spettro che si aggira per il libro – diario di viaggio di Rumiz è il fantasma di Tito Livio, ma pure quello di Polibio, nonché quello di un Archimede che vaga per una Siracusa che l’ha dimenticato storicamente, che se ne ricorda solo per operazioni di “marketing“.
L’avrete capito ormai: questa non è la storia di Annibale, ma è un viaggio tutto intorno a lui, tutto attraverso lui, per conoscere e, in particolare, ri-conoscersi in una linea di continuità dei millenni che dà un senso, quanto meno cronologico, dell’esistenza nostra in un mondo che è e rimane complicatissimo negli interscambi culturali, sociali e civili.
La vita del generale cartaginese, e la sua morte, sono una eredità scomoda e, per questo, tremendamente affascinante e interessante: senza fare a gara con quelle di Cesare o di Scipione. Semmai affiancandole, facendone plutarchianamente delle vite parallele che aiutano ad avere sempre più chiaro il rapporto che esisteva allora tra due sponde del Mediterraneo, nella lentezza degli scambi commerciali e nella ancora più lenta marcia degli eserciti che per affrontare due battaglie diverse impiegavano a volte mesi e mesi, se non anni.
Le marce forzate, le comunicazioni portate a rotta di collo e di azzoppamenti di cavalli: tutto, nel mondo di Annibale e della Roma che si affaccia al continente africano, è una anabasi continua, un cercarsi senza trovarsi, un confrontarsi a distanza, una battaglia giocata sui campi epocali della pianura del Po, dell’Italia meridionale e dell’odierna Tunisia ma pure osservandosi da lontano. Da molto lontano.
Le coscienze sono fenomeni della cultura dell’epoca: sono i mondi diversi che si guardano e che si sfidano. L’oblio rischia di gettare un’ombra su tutto. Se i siracusani si sono dimenticati, nemmeno un secolo dopo la sua morte, della presenza di Archimede nella loro città – con grande sgomento di Cicerone – è possibile che duemila anni dopo nessuno ricordi più le Guerre puniche, il loro “perché” come elemento puramente meccanicistico e non come giustificazionismo di qualche sorta.
Ma la memoria migliore è il ripercorrere quei luoghi, proprio de millenni dopo. Passando per quasi tre continenti. Perché, da sempre, l’Europa si confonde un po’ con l’Asia e viceversa. L’impero più vasto della terra, in fondo, andava dalla Corea fino all’Ungheria, eppure anche di quel gigante è rimasta ben poca cosa.
Ma il “viator” persevera, affascinato dalle scoperte che si inverano nella Storia e, pure qui, viceversa. La conferma di quello che andavano scrivendo gli storici romani e greci è una prova del nove che eccita e rende poetico il racconto di Rumiz, ricchissimo di metafore e di descrizioni degne del miglior Balzac, oppure di un Tolstoj in stato di grazia.
A volte pare di sedersi allo stesso tavolo di un bar o di una locanda, di un ristorante locale come di un angolo sperduto di Istanbul o di Cartagine stessa. La colloquialità dell’autore – viaggiatore è veramente coinvolgente. Bisogna lasciarsi trasportare, pagina dopo pagina, da questa passione che si respira tra le righe e che è amore per l’ieri che diventa oggi, per l’Annibale che si ricorre per tutto il libro e a cui non si arriva mai veramente del tutto.
Il passaggio dei fiumi è un’altra rappresentazione paesaggistica degna di nota: dal Rodano alla Trebbia, fin verso le zone desertiche dove l’acqua sembra un ricordo, una idea innata, qualcosa di introvabile e assume le fattezze del mito tra le lande sabbiose, ai confini dell'”hic sunt leones“.
Proprio come il grido che i romani fanno echeggiare quando nell’Urbe arriva la notizia che il condottiero cartaginese si avvicina…: «Hannibal ante portas!» si strilla in città. Il panico si impadronisce del popolo, il Senato corre ai ripari, le legioni, sotto il comando di Scipione, attendono. I romani hanno tutto il tempo che vogliono, anche se sembra che la minaccia nei confronti dello Stato sia ormai arrivata al redde rationem. Annibale esita: manda emissari in patria perché gli inviino altre truppe. Non ne arrivano.
Le grida dei romani si affievoliscono, l’assedio paventato sembra allontanarsi. Il pericolo non c’è mai stato. Il generale, stremato dalla lunga campagna insieme al fratello Asdrubale, capisce che non avrà tregua. Rumiz lo descrive molto bene questo frammento di storia importantissima dell’avventura cartaginese in Italia. Lo descrive come fosse la scena di un dramma che sta tra l’avventuroso e il bellico. Ed infatti, è proprio questo.
Ed è anche un lungo viaggio. Come quello dell’autore. E’ la scoperta di tutto un mondo che riserva sempre delle sorprese. Perché la potenza romana sta diventando sempre più estesa, comincerà a non conoscere confini, andrà ben oltre le Alpi e i mari che sono quei confini naturali di una penisola che sta stretta ai sogni di gloria dei padri coscritti.
Così, come Siracusa, anche Capua diventa una tappa del viaggio tra le più importanti. Le letture classiche di Rumiz danno sostegno al racconto e lo corroborano con un fascino del passato che non stride affatto nel presente moderno in cui pensiamo di vivere, di essere quindi “superiori” all’antichità.
Confondiamo quantità del tempo e qualità dello stesso. Un viaggio come quello partito della coste della Sardegna ed arrivato a toccare tante altre coste, può dimostrare che il progresso tecnologico sfigura davanti alla enormità dei fatti storici. Ma ne fa parte a pieno titolo e, soprattutto, possiamo avvantaggiarcene per sapere sempre di più su quel passato che è l’ombra della nostra vita precedente: quella di chi ci è alle spalle e pare osservarci da un oltretomba che finiamo sempre con l’immaginare come la nostra vita eterna.
Sono i racconti fantastici su re Kroton e sulle ninfe come Lighea che si confondono con le acque dei fiumi e dei mari a favoleggiare il racconto, a farne un’epica involontaria che parla della città di Terina, dove si forgiavano le più belle monete della Magna Grecia. Perché da queste improbabili realtà, narrate da rotoli di pergamene trascritti e ritrascritti fino ad oggi, scivola su un bellissimo tappeto srotolato ai piedi della Storia lo sguardo di un Annibale su un’Italia che deve abbandonare.
E’ la melanconia di un condottiero che ha provato a piegare Roma e che, per vicende diverse e avverse, non vi è riuscito. Chissà – si domanda l’autore – quale sarà stato l’ultimo pensiero prima di ripartire per l’Africa? Chissà quale sarà stata l’ultima visione dell’Italia che si allontanava nell’inoltrarsi nel mare della sua flotta:
«Può darsi che il cartaginese abbia visto, tra i canneti e una fonte d’acqua calda, gli occhi neri e terribili della sirena divenuta ninfa di fiume. Una bellezza così non si consegna ai Romani, e Terina distrutta per sempre. Fu quello l’ultimo atto d’amore di Annibale per l’Italia».
Annibale vive ancora. Nell’eccentricità del suo sogno, nell’ardimento della sua sfida, nel viaggio che si può sempre fare alla scoperta di quegli sconfitti che, proprio per questo, sono eternamente grandi.
ANNIBALE
PAOLO RUMIZ
FELTRINELLI
€ 9,50
MARCO SFERINI
25 gennaio 2023
foto: particolare della copertina del libro