La favola che diciamo esopica, ossia un breve racconto che serve a dimostrare una morale e che è ambientato in un mondo fantastico in cui animali e piante parlano e interloquiscono con gli esseri umani, non ha un’origine greca, ma orientale, e si è diffusa in Grecia dalla Mesopotamia, attraverso percorsi alla cui difficile ricostruzione hanno dato contributi fondamentali alcuni tra i più grandi studiosi del mondo antico, da Hermann Diels a Martin L. West ad Antonio La Penna.
Esopo – considerato da Vico un carattere poetico, ossia un personaggio puramente simbolico, che avrebbe incarnato la saggezza plebea espressa dalla favolistica, il più popolare tra i generi letterari, ma che in realtà è una figura di una qualche consistenza storica, il cui floruit può essere fissato nella prima metà del VI secolo a.C. – non fu il primo favolista greco.
Favole che definiremmo ‘esopiche’ si trovano infatti in Esiodo e in Archiloco; Esopo fu tuttavia considerato fin dal V secolo a.C. il favolista principe, l’«Omero o il Tucidide o il Platone delle favole», come avrebbe detto molto tempo dopo Giuliano l’Apostata nel Contra Heraclium Cynicum.
Il nucleo originario delle favole attribuite a Esopo ebbe in una prima fase una circolazione orale (che del resto non cessò mai); poi – nel V secolo a.C. – confluì verisimilmente in un Volksbuch, un libro popolare in cui favole e detti sentenziosi accompagnavano una biografia romanzata di Esopo, che è giunta fino a noi in redazioni assai più tarde e profondamente rielaborate, e che è comunemente nota come Romanzo di Esopo.
La prima collezione a sé stante di favole esopiche sembra essere stata redatta da Demetrio Falereo, l’allievo di Teofrasto che sul finire del IV secolo a.C. governò Atene con pieni poteri. A questa raccolta, irrimediabilmente perduta, o a una raccolta da essa derivata, attinse verisimilmente Fedro, che nel I secolo d.C. pubblicò cinque libri di favole esopiche in senari giambici, scritte in un latino di elegante concisione.
La raccolta di Fedro è la più antica collezione esopica a noi pervenuta, ma è evidente che essa presuppone un genere letterario già perfettamente codificato sia dal punto di vista stilistico (la brevità) sia dal punto di vista ideologico: la favola esopica insegna agli uomini come combattere per il proprio interesse e come sopravvivere in un mondo dominato dalle leggi immutabili dell’egoismo, della forza, dell’astuzia – un mondo in cui i poveri, i deboli e gli stolti sono oppressi senza alcuna pietà, e le cui regole devono essere accettate con rassegnazione, ma anche con elasticità mentale e, per così dire, adattabilità darwiniana.
Le raccolte esopiche in prosa greca che sono giunte fino a noi, compresa la più antica, la cosiddetta Collectio Augustana, sono difficili da datare, ma appaiono tutte successive alla raccolta di Fedro, rispetto a cui sono anche nettamente inferiori per qualità letteraria.
Esse non si rifanno, d’altro canto, a Fedro (i Greci non imitavano i Latini!), ma attingono alle sue fonti, come ha ipotizzato l’ellenista spagnolo Francisco Rodríguez Adrados e come la comparazione tra i testi sembra effettivamente rivelare (anche se in una materia così scivolosa è difficile avere certezze assolute).
Contribuirà certamente a rinfocolare l’interesse per le favole esopiche in prosa greca – che sono poi le favole sulle quali ancora oggi i ragazzi imparano il greco – un corposo volume uscito di recente: Esopo, Favole, saggio introduttivo, nuova traduzione e note a cura di Renzo Tosi; testo greco a fronte (Rusconi Libri «Classici greci e latini», pp.LXI-397, € 11,00).
In questo volume, Tosi – apprezzato grecista dell’Università di Bologna, molto noto anche al di fuori della cerchia dei filologi classici per il pregevole Dizionario delle sentenze latine e greche (Bur, 2017³) – offre al lettore un’ampia introduzione sulla storia della favola esopica (Esopo e la favola: una tradizione millenaria) e la traduzione italiana, con testo originale a fronte e note di commento, di una selezione di 404 favole, che include la Collectio Augustana, favole di raccolte esopiche seriori, nonché favole di matrice esopica rielaborate e inglobate in testi in prosa d’altro genere di epoca imperiale e bizantina.
Tale silloge, che cerca con merito – come Tosi sottolinea (p. L) – «di fornire al fruitore un quadro della complessità, della fluidità e dell’ampiezza del materiale greco che va sotto il nome di Esopo», riproduce largamente il corpus pubblicato nell’edizione critica da Tosi presa come base testuale e punto di riferimento filologico, ossia la teubneriana di August Hausrath rivista da Herbert Hunger (Corpus fabularum Aesopicarum, vol. I, Fabulae Aesopicae soluta oratione conscriptae, 1959-1970², 2 tomi).
Tosi omette, però, parte del materiale favolistico pubblicato in quell’edizione e ne aggiunge altro, attingendo alla vetusta, ma tuttora importante, edizione Les Belles Lettres di Émile Chambry (Aesopi fabulae, 1925-1926, 2 voll.), nonché ai fondamentali Aesopica di Ben E. Perry (1952).
Come Tosi osserva (p. XLIX), «di Esopo non esiste un testo-standard: le edizioni sono tra loro molto differenti». Ciò – aggiungo io – dipende dal fatto che il testo favolistico in prosa era per sua natura soggetto a una trasmissione proteiforme; era infatti apprezzato essenzialmente per il contenuto, non per lo stile né per il dettato, e tendeva quindi a subire profonde rielaborazioni; di conseguenza, le variazioni lessicali, grammaticali e sintattiche da manoscritto a manoscritto sono la norma, non l’eccezione, e non di rado risulta arduo stabilire quale tra le varianti debba essere considerata genuina.
La scelta di usare come testo base quello di Hausrath e Hunger operata da Tosi è senz’altro sensata, perché è vero – come egli stesso sottolinea (p. XLIX) – che la loro edizione è quella di riferimento in ambito filologico. Bisogna però rimarcare che non si tratta di un’edizione impeccabile. Tosi non la segue acriticamente, e talora se ne discosta con piena ragione (ad esempio nella favola nr. 229, Le due bisacce). Io me ne sarei discostato, tuttavia, molto più spesso.
Un passo in cui il testo accettato da Tosi non mi pare condivisibile occorre proprio nella prima favola, L’aquila e la volpe (dalla Collectio Augustana), ove nell’inciso del terzultimo periodo Tosi legge, con Hausrath, kaì gàr êsan éti ateleîs hoi ptenoí, traducendo «erano alati, ma non erano ancora in grado di volare».
Ma la resa è forzata (se mai la versione di Tosi corrisponderebbe a qualcosa come kaì gàr êsan éti ateleîs ei kaì ptenoí), e il greco è problematico sia linguisticamente sia dal punto di visto del senso; senz’altro migliore è la lezione del manoscritto più antico dell’Augustana, kaì gàr êsan éti ptênai ateleîs («erano infatti ancora incapaci di volare»), accolta da Perry e raccomandata da Hunger, che in appendice all’edizione teubneriana emenda numerose sviste di Hausrath.
Nel caso della favola nr. 162, Il lupo e la capra, Tosi segue il testo teubneriano, ma avrebbe più opportunamente ripreso quello, nettamente superiore, stabilito da Perry e commentato da West nel suo noto manuale di critica testuale, tradotto anche in italiano (Critica del testo e tecnica dell’edizione, L’Epos 1991, pp. 133-135). Mi fermo qui, ma gli esempi si potrebbero moltiplicare.
La traduzione di Tosi è affidabile, come ci si poteva attendere, e costituisce un buon sussidio all’intelligenza del testo originale, il cui stile scabro, a volte incondito, viene riprodotto nella versione italiana senza troppi abbellimenti.
Qualche resa non felicissima andrà forse ripensata in un’eventuale seconda edizione; ad esempio, gli ultimi due periodi della favola nr. 371 (= Aftonio, 5 Hausrath-Hunger) andranno tradotti più o meno così: «stupidissimo capraio, il corno griderà anche se io starò zitta. Così sono troppo ingenui coloro che vogliono occultare ciò che è sotto gli occhi di tutti».
Il saggio introduttivo è chiaro, ben documentato sul piano dossografico e quasi in totum condivisibile; ma il Romulus – corpus di favole in prosa latina costituito in gran parte di parafrasi da Fedro – non è del IX secolo, come invece si afferma a p. XLIII; del IX secolo è il codice più antico dell’opera, mentre il testo nella sua forma originaria sembra risalire al II/III secolo.
E Gualtiero Anglico non è l’autore dell’Isopet di Lione (così Tosi, ibidem), bensì la sua fonte; a lui si deve infatti una raccolta di favole esopiche in distici elegiaci latini del XII secolo, derivata dal Romulus e destinata a una straordinaria fortuna in età tardo-medievale e rinascimentale (Gualtiero è colui che Dante nel Convivio chiama «Esopo poeta»).
Il commento, ricco di dottrina, nonostante la stringatezza e i limiti imposti dalla collana, contiene materiale e osservazioni originali, e sarà utile anche agli specialisti, che faranno bene a non ignorarlo.
GIOVANNI ZAGO
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