Ritorna in prima piano l’intreccio politica/corruzione. C’è stato un periodo nel quale si pensava che l’intreccio passasse attraverso l’eccesso di elargizione di benefici ai partiti.
Oggi ritroviamo, invece, i classici elementi di un tempo: le vecchie e care tangenti il cui scambio pare albergare anche nei movimenti che avevano fatto dell’“onestà” una bandiera e dell’antipolitica il mezzo per raccogliere milioni di voti.
In questo momento però non si può dimenticare il punto caratteristico dell’infinita transizione italiana da Tangentopoli in poi.
L’insieme della vicenda politica italiana negli ultimi venticinque anni è stata sovrastata da un gigantesco “conflitto d’interesse” che ha inquinato pesantemente e in maniera del tutto trasversale la società, corrompendola nel profondo, offrendo modelli e stili di vita ormai accettati dai più, con sullo sfondo l’eccesso di competizione personale, violenza, sopraffazione che registriamo nella vita di tutti i giorni.
E’ difficile trovare la via di un discorso politico che non appaia semplicemente un richiamo moralistico e, quindi, potrebbe essere il caso di fermarci a questo punto dimostrando semplicemente di aver registrato attentamente, ma per l’ennesima volta in un caso di “repetita non juvant”, ciò che è avvenendo.
Sulle basi di ciò che pare sia stato scoperto in questi giorni si può ancora comprendere meglio la reazione avuta, nel corso degli anni, dal ceto politico (tipica di chi si sente arroccato nel fortino del “cartel party”) che ha tentato di coartare, per via legislativa, la giustizia (penso che tutti si saranno accorti che certe leggi non sono “ad personam” come si tentava di far credere, riguardavano un intero ceto politico, all’interno anche di un’idea di “alternanza”).
Si è così cercato di fare in modo che emergessero determinati elementi: populismo, personalizzazione, cooptazione dall’alto e/o “dal basso” se guardiamo ai criteri di selezione del ceto dirigente, criteri dominati – a quanto sembra – dal “familismo amorale”.
Non basta per fronteggiare questo stato di cose, assai grave, quella che è stata definita “bella” o “buona” politica: intenzioni di cui appare lastricata di sassi la strada dell’inferno.
Abbiamo ceduto su questo terreno; abbiamo ceduto al corporativismo e a un’idea, sbagliata, di democrazia diretta di tipo sostanzialmente “referendaria” sul tema “governo sì”, “governo “no”.
La “partitocrazia” (da Maranini), tanto invocata e /o maledetta, può essere superata soltanto tornando alla piena rilevanza della rappresentanza politica collettiva.
In questo modo può sciogliersi in positivo l’intreccio tra “questione politica” e “questione morale”, interpretando la crescente complessità sociale nella forma della tensione al cambiamento e impedendo che il definitivo crollo della partecipazione politica apra la strada al trionfo finale dei “corpi separati”.
Non è certo costruendo un regime personali fondati sull’asservimento e la prostrazione di corifei interessati che si affrontano paese. Inoltre la politica non può limitarsi, come quasi sempre è avvenuto, a delegare la magistratura.
Forse, da qualche parte, è ancora il caso di richiamarsi alla “diversità”, non tanto a quella di un partito ma all’espressione di un’idea di eguaglianza, di diverso modo di vivere, di ideali da perseguire per i quali può valer la pena di vivere.
Studio e sacrificio, nella via “etica” alla politica, in una qualche misura già indicata nell’odio verso gli indifferenti di memoria gramsciana potrebbero ancora rappresentare un monito e un esempio.
Poca cosa? Probabilmente sì ma necessaria almeno da evocare.
FRANCO ASTENGO
22 marzo 2019
foto tratta da Pixabay