Ieri sera nella trasmissione “Otto e mezzo”, su La 7, uno dei pochi spazi di discussione e non di urla e di voci sulle voci, si parlava di Islam e di zone oscure del medesimo nel nostro Paese.
Tra le tante tematiche affrontate, è spuntata la domanda sul confronto con la laicità francese e la decisione di Parigi di vietare il velo in quanto elemento di distinzione religiosa, in contrasto con i princìpi repubblicani di uguaglianza, libertà e fratellanza.
Il punto è sempre lo stesso: libertà e coercizione. Quando una donna è costretta a portare il velo e quando, invece, lo porta volontariamente? E se lo indossa di sua volontà, per libera scelta, è legittimo per un principio di laicismo di stato impedirle di portarlo?
Quindi: fino a dove si può spingere la regolamentazione della libertà comune a discapito di quella individuale?
Sono propenso a ritenere che sia giusto, in uno Stato laico, evitare qualunque manifestazione religiosa che limiti i diritti individuali anche solo potenzialmente.
Ma laicità significa prima di tutto rispetto e non imposizione. Quest’ultima è proprio il contrario del credo religioso stesso: se viene imposto non è fede, ma costrizione.
Quindi, si può provare a venire ad un compromesso tra fondamenta repubblicane laiche ed espressioni religiose: ciò che conta è la libertà assoluta, senza distinzioni di sorta. Qualunque repubblica democratica e laica deve essere garante di ciò: dell’uguaglianza formale e sostanziale dei suoi cittadini. La prima deriva dalla seconda, perché non esiste vera uguaglianza senza vera giustizia sociale.
(m.s.)
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