Ha scritto Ernesto Galli della Loggia “Corriere della Sera” 10 ottobre 2018: “dopo il 1989 il PCI ha preferito cambiare chiamandosi di “sinistra” e poi “democratico” ma dio ne scampi giammai socialista o socialdemocratico”
Ha risposto Emanuele Macaluso “Corriere della Sera” 11 ottobre 2018: “Ma quale PCI? Il PCI dopo il 1989 – 90 non c’è più e tu dimentichi che Pajetta, Natta, Ingrao, Tortorella, Cossutta, Garavini e molti altri non vollero chiamarsi democratici di sinistra ma ancora comunisti.
E Napolitano, Bufalini, Chiaromonte, Cervetti, Rubbi e il sottoscritto (Emanuele Macaluso, ovviamente. n.d.r.) anche con tanti giovani aderirono alla svolta di Occhetto ma proposero la definizione di “Partito del socialismo europeo”.
Cos’è il PCI di cui parli (riferito a Della Loggia,n.d.r.) senza quelli che continuarono a definirsi comunisti e senza di noi riformisti?
Certo su di un punto hai ragione: la fine dei partiti del dopoguerra e della Costituzione ha lasciato un vuoto che, a mio avviso (sempre di Macaluso naturalmente, ma su questo punto la concordanza con il redattore di questo testo è assoluta) dura da 30 anni.
E nel vuoto oggi, come dici, parte del popolo si identifica con la felpa di Salvini e gli arditi congiuntivi di Di Maio.
E la responsabilità di questo vuoto è, in buona parte di quel gruppo di ex-PCI che dal PDS al PD hanno interpretato la sinistra. Ma questo è un altro discorso”.
L’oggetto del contendere tra Galli della Loggia e l’antico direttore dell’Unità che firmava i suoi articoli di fondo con la sigla “em.ma”, ha risieduto in questa occasione sui temi del ruolo popolare del partito e sulla funzione, al suo interno, degli intellettuali.
Galli della Loggia nella replica ribadisce la diversità tra il PCI, che lui considera partito guidato da un gruppo dirigente “lontano dal popolo” e provvisto di un “tratto di tipo schiettamente borghese – intellettuale” e i gruppi dirigenti di SPD e il Labour che invece erano, a suo giudizio, di origine popolare.
Su questo argomento mi permetto, prima di tutto, un punto di premessa specifico e insieme di carattere generale; un accenno alla realtà locale di provenienza di chi ha redatto queste note.
Savona alla Liberazione era una città operaia :nel comprensorio si contavano circa 10.000 operai di fabbrica più i portuali su circa 60.00 abitanti.
Ebbene in una città squassata da terribili bombardamenti, sventato il tentativo di depredazione dei macchinari da parte dei nazisti, la ricostruzione fu guidata da una giunta formata da PCI e PSI: tra il 1945 e il 1957 (proprio gli anni cruciali della ricostruzione e della difesa delle fabbriche dal processo di ristrutturazione dell’industria bellica) si alternarono due sindaci comunisti, entrambi operai di fabbrica mentre nella Giunta furono presenti diversi altri operai provenienti dai grandi opifici della Città e dal Porto.
Operai che terminati i loro mandati, anche parlamentari, ritornavano alle loro fabbriche per svolgere le normali mansioni loro assegnate: anzi per gli assessori comunali non c’erano permessi, distacchi, aspettative. Si doveva lavorare e poi, finito il turno, recarsi in Comune a svolgere le proprie funzioni istituzionali (inoltre c’era l’attività di Partito a quell’epoca molto intensa tra cellule, sezioni, Federazione provinciale).
Non si poteva certo parlare, nel nostro caso, di un Partito guidato da intellettuali di origine borghese – intellettuale ma di una presa di responsabilità dirigente direttamente assunta dalla classe operaia: e non è il solo esempio che si possa ricordare a questo proposito.
Vale la pena di rammentare anche, ancora una volta, la fondamentale funzione “pedagogica” che il PCI ha svolto nella sua storia.
Funzione pedagogica attraverso il cui esercizio si sviluppava la costruzione dei gruppi dirigenti che avveniva, è bene ricordarlo, esclusivamente per cooptazione senza dimenticare la rigida adozione per quel che riguardava le scelte politiche del metodo del centralismo democratico.
A questo punto al di là di un confronto limitato al tema dell’origine sociale dei gruppi dirigenti è forse il caso di ribadire ancora alcuni altri elementi:
La linea del PCI fu orientata, nel corso dei decenni centrali del secolo scorso e fino alla vigilia della liquidazione del partito, da almeno quattro grandi coordinate strategiche, che possono essere così riassunte:
1) Il rapporto tra la teoria e la prassi.
Questo elemento ha rappresentato un punto decisivo nell’identità del PCI, legato all’idea dello sviluppo delle forze progressive, di una scienza in grado di produrre una tecnica sulla basare una linea di sviluppo “naturalmente” progressista.
In questo ambito avveniva la rivalutazione del cosiddetto “intellettuale organico” (nella definizione gramsciana), cui Togliatti aveva affidato la concretizzazione della linea politica;
2) L’intreccio tra politica e cultura.
Un intreccio molto stretto, al limite dell’indissolubilità, quello tra politica e cultura, con una concezione della cultura di tipo “classico”, di studi robusti e solidi, riservando alla base sociale il livello “nazional – popolare”.
Questo elemento lo si rileva osservando i diversi livelli della pubblicistica del PCI e delle espressioni di sinistra affini al partito, in una scansione ben definita rispetto agli obiettivi da raggiungere.
Questa “classicità” e “solidità” dell’interpretazione culturale, stava certamente anche all’origine di ritardi nel riconoscere il ruolo delle avanguardie (sia in campo letterario e artistico), sia nell’ammettere situazioni ai limiti e ai margini dell’ortodossia “socialista” (i casi più noti sono clamorosi e non è il caso di ricordarli, se non per rammentare che anche in periferia vi furono interpretazioni del rapporto cultura/politica e del suo sfociare nel “totus politicus” tali da suscitare difficoltà e incomprensioni).
Pur tuttavia fu attraverso il rapporto stretto tra politica e cultura, così come si è cercato di intendere fin qui, che, in particolare nella strategia togliattiana avvenne la selezione dei quadri dirigenti: mentre per la classe operaia questa stretta relazione tra politica e cultura, risultò alla base della ricerca del riscatto sociale.
Egualmente va ricordato come “classicità” e “solidità” si collocassero alla base del tipo di acculturazione politica che si sviluppava attraverso l’iniziativa delle scuole di partito, principale fra tutte quella di Frattocchie. Elementi di “classicità” e “solidità” si trovavano anche come fondamento dell’opera di acculturazione di massa realizzata soprattutto attraverso la forte diffusione (a diversi livelli) di riviste come “Rinascita” e “Il Calendario del Popolo”;
3) La relazione tra ideologia e razionalità politica.
La continua ricerca della trasformazione in linea politica dell’ideologia può far definire il PCI come un partito “neo – illuminista”, fortemente impregnato di positivismo e contrario all’idealismo.
In realtà il PCI presentava al suo interno una molteplicità di modelli culturali ( si pensi alle diverse case editrici cui il partito faceva capo, al di là delle “ufficiali” Rinascita e, successivamente, Editori Riuniti: Einaudi e Feltrinelli tanto per citare le principali. Feltrinelli capace di editare, in anticipo in tutto l’occidente “Il dottor Zivago”) che, appunto, l’applicazione della linea politica concreta permetteva di far convivere fruttuosamente, attraverso un meccanismo davvero definibile come “neo – illuminista” (non a caso Togliatti amava Voltaire e fu autore di una delle più importanti prefazioni edite in Italia del “Trattato della tolleranza”);
4) Il peso del filtro della concezione di classe nell’agire politico.
Questo fattore è stato sicuramente presente, in una dimensione massiccia, sulla realtà operativa del Partito fino agli anni’70 inoltrati.
Era sulla base della concezione di classe applicata all’agire politico che si realizzava il rapporto tra trasformazione e gestione nell’iniziativa quotidiana del partito, all’interno delle istituzioni, nell’amministrazione pubblica, nella guida delle Regioni e degli Enti Locali.
Ancor maggiore importanza il filtro della concezione di classe sull’agire polito lo ebbe nello stabilire la relazione tra moralismo e rigore politico, che stava alla base della concezione berlingueriana, prima del “compromesso storico” e, successivamente, dell’alternativa, basata, appunto per iniziativa del segretario Enrico Berlinguer, sulla “questione morale”, intesa come piena “questione politica”.
Dall’inizio degli anni’80 l’emergere di questioni e problemi sui quali sarebbe stato giusto sollecitare un più audace e coraggioso rinnovamento, così come nell’elaborazione che nella proposta furono, invece, assunti come fattori da interpretare in senso di una maggiore omologazione, sia nei comportamenti politici, sia negli orientamenti culturali e ideali che, in quel momento, raccoglievano i più facili consensi.
Cominciava, in sostanza, a far breccia, anche nel PCI o almeno in settori rilevanti del Partito, la grande offensiva ideale e politica neoconservatrice che, proprio in quegli anni’80, favorita del precipitare della crisi del sistema comunista in tutto l’Est europeo, sia dal logoramento e dall’esaurimento anche delle migliori esperienze socialdemocratiche dell’Europa Occidentale, si sviluppò con impeto in Europa come in America (sotto l’insegna del reaganian – tachterismo), e i paesi dell’Est come in quelli dell’Ovest.
Andò così maturando, anche nella realtà italiana, una sconfitta che, prima ancora che politica, risultò essere culturale e ideale: da qui la crisi verticale del Partito e, insieme, dello stesso sistema politico italiano come ricordato, del resto, nella parte conclusiva del sopracitato intervento di Macaluso che rappresenta comunque una sintesi particolarmente efficace sulla quale si può attestare la definizione del senso generale di tutto il ragionamento riguardante la conclusione (definitiva e non più ripresa in nessuna delle sue diverse “sensibilità” per dirla con un termine togliattiano) dell’esperienza del Partito Comunista Italiano.
FRANCO ASTENGO
redazionale