Altalena contiana e incertezze democratiche: il progressismo difficile

L’ambiguità è una potente alleata non del lato oscuro della forza ma del vizio di una politica italiana che non la smette di imperversare anche nella più moderna delle...

L’ambiguità è una potente alleata non del lato oscuro della forza ma del vizio di una politica italiana che non la smette di imperversare anche nella più moderna delle modernità. Benché oggi tutti si affannino a declamare la fine delle ideologie e il passaggio all’era del leaderismo, come modello di assoluta novità nello scenario avventuristicamente futuristico del premierato, che tuttavia sonnecchia nei cassetti polverosi del Senato e della Camera, di antico si recupera sempre qualcosa.

Ed il trasformismo, sinonimo anche dell’ambiguità dei partiti e dei movimenti di recente generazione, assume i connotati di una predisposizione quasi strutturale nell’ambito della ricerca delle alleanze non tanto in ragione delle necessità del Paese ma della convenienza particolare, contingente del momento e per la singola forza politica. Ovvio che tutto ciò ha il retrogusto amaro della inadeguatezza di una cultura sociale e di un mancato senso civico che non fa onore ai tentativi di rinascita del progressismo italico.

Ovvio, altresì, il riferimento, caso mai non si fosse capito, al contismo, al penstallatismo di nuova stagione: quello che si vorrebbe epurato dal grillismo delle origini e, quindi, collocato non a sinistra ma, sostiene l’ex Presidente del Consiglio, nel fronte, per l’appunto, del progressismo di nuova misura e maniera. Alla festa nazional-invernale di Fratelli d’Italia gli applausi si sprecano per il leader del M5S. Deve vellicare una platea che, si presuppone con ragione, non gli sia particolarmente amica.

E allora, incalzato dalla domanda di Mario Sechi se sia, si consideri o pensi di ritenersi anche vagamente di sinistra, Conte risponde: «Se sinistra significa combattere questo governo solo nel nome dell’antifascismo io non ci sto!». Ed incalza, incoraggiato dal primo applauso dei militanti meloniani: «Se significa accogliere tutti in modo indiscriminato non ci sto». Qui le mani si sperticano ritmicamente a sostenere quello che sembra uscito dal campo progressista per entrare nel fantastico mondo di Atreju.

Non finisce qui: «Se essere di sinistra significa preoccuparsi solo di quelli che vivono nelle ztl non ci sto». Deve stupire tutto questo? Francamente molto poco. Giuseppe Conte non è mai stato di sinistra, ma noi italiani ci abbandoniamo mollemente ad una voglia di etichettare ogni cosa, ricorrendo ai nostri desiderata più di quanto si potrebbe e salvando così una peccaminosa anima singola e collettiva dal confronto con sé stessa, da una autocritica che indurrebbe a fare i conti con un po’ di sana aderenza ad un piano di pur minima coerenza.

Ma come si fa a chiedere coerenza a chi proviene, nell’insieme, da quell’antipolitica che tanto era in voga appena una decina di anni fa? Un termine che era inflazionatissimo: non potevi scorrere una colonna di giornale senza trovartelo davanti. Adesso, dopo la finta fine del tri-quadripolarismo, con il centro che non riesce a trovare una sua collocazione ricostituente un minimo di domestiche mura liberal-liberiste, e l’esaurimento del grillismo in quanto originaria matrice del populismo ad italico buon mercato, riesce piuttosto facile essere buoni per tutte le stagioni.

Oppure per tutti i palchi, le piazze, le vie, i canali televisivi e i post sui social. La lunga intervista fatta a Giuseppe Conte in quel del villaggio invernale di Atreju è una eccezione quasi miracolosa: non una concessione, ma certamente una cortesia fatta dai fratellitaliani ad un leader che si definisce “progressista indipendente” e che ha dato prova di una mutevolezza tutt’altro che di seconda scelta. Per quanto si possa auspicare che tra PD e Cinquestelle ne nasca fuori un incontro che faccia rinascere un minimo comun denominatore progressista, nessuno può dimenticare il Conte I.

Un governo che ha varato leggi e decreti legge tra i peggiori in materia di diritti umani nei confronti dei fenomeni migratori, nonché in materia di securitarismo. A proposito di questo, nello stesso giorno in cui va alla festa di Giorgia Meloni, il già “avvocato del popolo” presenzia anche alla manifestazione contro il famigerato DDL 1660: quello che comprime, reprime, opprime, sequestra svariate libertà di manifestazione, di pensiero, di critica, di decostruzione della disinformazione di Stato, e blinda i confini dell’essere e del fare di ognuno di noi se oltrepassano gli argini della legittimità imposta dal governo.

Ora, non per essere pignolissimi, ma in tutto questo si può legittimamente leggere una qualche contraddizione, oppure è fare un cattivo servizio in nuce alla domanda di unità che viene dalla gente di sinistra e che reclama la formazione di un fronte progressista attivamente presente nelle politiche sociali, civili e in una ridefinizione anche della cultura generale di questo disgraziato Paese?

Se al PD si può rimproverare l’inadeguatezza di un ruolo di centrosinistra nella sinistra moderata, spacciandosi comunque per sinistra modernamente declinabile tanto sul fronte economico-sociale quanto su quello di una sorta di rimodulazione dell’antropologia-culturale del Paese, ai Cinquestelle di nuovo modello contiano si deve obiettare, quanto meno, che manca sempre un riferimento pur minimamente ideale che possa tratteggiare una fisionomia propriamente geopolitica del loro essere e del loro agire.

Il problema è che sembrano a volte di sinistra, altre volte di destra. Quasi mai di centro. Il recente appuntamento di Nova non ha sciolto questo problema, perché sibillinamente è rimasta tutta quanta quell’ambiguità di cui si faceva cenno all’inizio di queste riflessioni: sì, progressisti ma non di sinistra se… Se, per esempio, essere di sinistra vuol dire essere più umani delle leggi fatte da Conte con Salvini in materia di migrazioni? Se, per altro esempio, essere di sinistra significa fare dell’antifascismo una delle bussole dell’agire politico?

Se un governo come quello di Giorgia Meloni si contraddistingue per la sua disinvoltura nel mostrare il lato perbene, avendo alle spalle tutto il neo o postfascismo del caso, ed esprimendo il potenziale del conservatorismo repressivo nell’aumento delle pene e mai nella ricollocazione dei problemi sociali in un contesto di condivisione collettiva, solidale, inclusiva che affronti con un approccio critico il quid che è alla base del disagio diffuso (ad esempio… la povertà incedente ed indecente, che costringe all’arruolamento nelle fila della reità…), obbligo della sinistra è contrastarlo senza se e senza ma.

Prendersi gli applausi della platea di Atreju potrà anche essere piacevole, se non altro per evitare di essere fischiati. Ma così si dà uno spettacolo di ambivalenza che non giova ad una vera causa moderna di progressismo tutto da reinventare dopo i sommovimenti politici, economici e sociali di questa fase di guerra permanente, a pezzi eppure globale. Delude, quindi, il Conte che va alla festa fratellitaliota e cerca di compiacerne gli astanti. Ce lo si sarebbe aspettati più genuinamente polemico, dialetticamente critico, anche un po’ aspro; ma non certamente asperrimo.

Invece si limita a ripetere la definizione, sempre ambigua, di “progressista indipendente“: tradotto con “non di destra ma nemmeno di sinistra“. Esiste una speculare equivocità tra Cinquestelle e PD in questo frangente: là dove i primi fanno fatica a dirsi di sinistra, il PD fa fatica ad essere realmente progressista. Nel momento in cui i pentastellati si affermano come forza politica che contende il campo del riformismo sociale ai democratici, questi ultimi recuperano un perimetro valoriale da guache réformiste con la segreteria di Elly Schlein.

Dovrebbero, in qualche maniera, ritrovarsi in un dato punto del cammino comune. Ed invece la contesa si attorciglia sulla concorrenzialità proprio della rappresentanza di quello che potremmo definire un “neoprogressismo“. Indipendente per Conte, difficilmente socialdemocratico per la segretaria del PD che, pure, gliene va dato atto, ha riportato la barra del suo partito su una rotta decisamente meno centrista rispetto all’epoca deleteria del renzismo.

La partita che pare giocarsi è proprio quella della non subordinazione vicendevole: nessuno vuole essere il cespuglio dell’altro, nessuno vuole essere da solo con sé stesso ma neppure in compagnia di un fratello maggiore che comanda e dirige la musica del nuovo fronte di opposizione che aspirerebbe a divenire, si spera prima delle future elezioni politiche, coalizione capace di scalzare le destre e governare democraticamente l’Italia melonizzata.

Il punto però riguardante la rinascita di una domanda di sinistra da parte delle classi popolari non può essere gestito con giochetti di sponda tra i partiti del neoprogressismo un po’ anomalo rispetto al passato e tanto ambiguo rispetto al futuro. Il tema di una riformulazione complessiva di un sentire sociale, di una collettività che non sia semplicemente declinata con il troppo interclassista e vago termine “popolare“, ma che ritrovi una caratterizzazione di classe e faccia del nostro popolo, dei salariati, dei precari e degli indigenti maggiori, il popolo per antonomasia, quel tema rimane.

Rimane tutto quanto aperto. Perché la sinistra moderna la si evince nel rossoverdismo di AVS e nella cocciutaggine anticapitalista e comunista di Rifondazione. Il PD è altra storia. Così come i Cinquestelle. Le somiglianze si intravedono solo se si fa riferimento alla necessaria disperazione dell’unità a tutti i costi per battere Meloni, Salvini, Tajani. Ma questo fronte progressista immaginato e poco praticato, non ha ancora una spinta propulsiva autonoma, frutto della convergenza istintiva e spontanea di vere forze alternative al conservatorismo retrivo delle destre.

Pare quindi sufficientemente chiaro il tipo di precario equilibrismo su cui pretenderebbe reggersi una alleanza tra soggetti che puntano ad un riconoscimento ufficiale da parte dell’elettorato in una eterna lotta che non risolve il nocciolo della questione: una unità fondata su una piattaforma programmatica ampiamente condivisa, in cui convergono valori e concretezza, idealità e pragmatismo, autocritica e dialettica al tempo stesso.

Per questo le parole di Conte ad Atreju non vanno nella direzione auspicata. Mortificano un vero processo di avvicinamento tra le parti, permettendo al camaleontismo di farla da padrone là dove invece potrebbe prevalere uno scatto di orgoglio anche un progressismo che prende le distanze dal classico concetto e luogo politico compiutamente di sinistra. Premesso che ad una festa di Giorgia Meloni si può anche evitare di andare, un segnale ancora più edificante in questa direzione sarebbero degli stati generali del neoprogressismo, della sinistra moderata e di alternativa.

Almeno un tavolo comune, un punto fisico in cui far convergere le idee e i presupposti. In autonomia, ma con spirito unitario. Tutto questo al momento manca e, senza ombra di dubbio, se ne sente una impellente, improcrastinabile necessità.

MARCO SFERINI

17 dicembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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