Dopo il varo della manovra economica, la Presidente del Consiglio si è affannata a ripetere più volte che il tempo a disposizione del nuovo Esecutivo è stato poco per cui non ci sono le cosiddette riforme. Che sono rinviate all’anno che viene, e che comunque non ci sono aiuti ai ricchi ma al ceto medio. Alcuni commentatori hanno parlato di una manovra piccola, piccola; altri hanno detto che nella sua fattura c’è più Andreotti che Almirante. Una minimizzazione che tende a creare un clima giustificativo verso le scelte del governo.
Che non si può condividere perché non regge neppure al primo esame delle misure assunte. Tocca persino dare ragione a Salvini che ha definito la manovra come un ottimo inizio. Infatti dal suo punto di vista, anche se non tutte le sue pretese sono state accolte, si tratta proprio di questo: un provvedimento ponte verso altri più organici già annunciati come peggiori, che esprime con nettezza la natura di classe di questo governo.
Non ci si lasci imbrigliare dalle dichiarazioni di una disinvolta Meloni. I ricchi non hanno bisogno di aiuti, basta non colpirli nelle tasche e nel loro potere che già si sentono sufficientemente protetti. È vero, il taglio del cuneo fiscale va a favore dei lavoratori e non per un terzo agli imprenditori, come era stato ventilato. Ma si tratta di briciole. La manovra stanzia a questo fine 4,2 miliardi di euro. Con questi si conferma il taglio di due punti, già deciso dal governo Draghi. Si aggiunge un altro punto per i lavoratori fino a 20mila euro di reddito. I quali se la potranno godere con un aumento al massimo di 11 euro al mese, mentre chi guadagna 15mila euro avrà «un vantaggio» ancora inferiore.
Il tutto mentre l’inflazione viaggia su un più 8% acquisito per l’anno in corso, che aumenterà visti i dati dell’ultimo mese che hanno quasi raggiunto il 12%. Con una simile inflazione confermare i saldi per sanità e istruzione significa operare di fatto un enorme taglio orizzontale alla spesa sociale. Meloni ha annunciato che il reddito di cittadinanza verrà abrogato dal primo gennaio 2024. Intanto il «ponte» è rappresentato dalla riduzione per il 2023 dai 18 mesi a 8 mensilità per gli «occupabili».
Dizione dal significato assai incerto. Comunque Chiara Saraceno ha calcolato che su 300mila persone in astratto occupabili, solo 9mila hanno trovato lavoro. Se la proporzione è questa vuole dire che il governo lascia che almeno 600mila famiglie sprofondino in una distruttiva crisi economica. In ogni caso contraddice se stesso: da un lato concepisce il reddito di cittadinanza come uno strumento di avvicinamento al lavoro, secondo i principi del workfare, dall’altro lo toglie proprio a chi viene definito come un lavoratore potenziale.
Non va meglio per le pensioni. La minime arriveranno a 570 euro mensili, che chiamano «perequazione maggiorata», cioè ben 8 euro in più al mese! Si stabilisce quota 103, ovvero in pensione a 62 anni con 41 di contributi, per una platea di 48mila lavoratori con un tetto dell’assegno pari a cinque volte la minima. Le donne potranno andare in pensione prima, si dice. A 58 anni se hanno due figli, a 59 con un figlio, a 60 anni senza figli, quindi una misura peggiorativa visto che oggi possono uscire dal lavoro a 58 anni e 35 di contributi (un anno in più per le autonome) a prescindere dai figli.
Per chi ha maggiore agio economico invece i vantaggi ci sono. La soglia di applicazione della flat tax al 15% sale da 65mila a 85mila euro, mentre la flat tax sul reddito aumentato rispetto al migliore degli ultimi tre anni riuscirà a contraddire il principio costituzionale della progressività, poiché chi guadagna di più pagherà di meno e contemporaneamente si sottopone a trattamenti fiscali differenti cittadini che hanno lo stesso reddito. Un successone. Ma non basta, perché non può mancare la «pace fiscale», ovvero la rottamazione delle cartelle fino a mille euro, quindi un condono, mentre quelle fino a 3mila verranno pagate solo al 50%, senza sanzioni e interessi.
Chi ha pagato le tasse fino all’ultimo euro, e non mi riferisco solo ai lavoratori dipendenti, ma anche a tutti i cittadini rispettosi dei loro obblighi, verrà ancora una volta gabbato. Con queste premesse è facile sospettare che la riforma fiscale, più volte richiamata nella conferenza stampa governativa, avverrà all’insegna della distruzione di ciò che rimane della progressività nel nostro sistema di prelievo fiscale.
Quindi non si tratta né di margini troppo stretti – i 21 miliardi da dedicare alle bollette, comunque insufficienti – né di tempi di elaborazione soffocati. Ma di una chiarissima volontà di consolidare se non un blocco almeno un consenso in determinati strati della popolazione, affinché la minoranza politica che ci governa – in virtù di una scellerata legge elettorale – trovi più salde basi. Questo è il terreno dello scontro che impone un conflitto sociale generalizzato.
ALFONSO GIANNI
Foto di Yury Kim