Una moto a terra, un incidente stradale. Un borsone dal colore del cielo, lì, sempre a terra, accanto alla moto. Il corpo del giovane trentunenne che la guidava, e che si portava sulle spalle il pranzo di qualcuno, è stato portato via. Pietosamente. Più o meno in quelle stesse ore le lavoratrici e i lavoratori della GKN di Firenze, sostenuti da un grande movimento di vera solidarietà di classe, scendevano in piazza, non molto lontano, in un’altra grande città italiana, per affermare i loro diritti e per dire NO alla guerra imperialista tanto di Putin quanto della NATO e del fronte occidentale.
Guerra. Quella del giovane rider morto per una fatalità che non può essere dissociata dai ritmi estenuanti dello sfruttamento delle multinazionali delle consegne a domicilio; e guerra, pure questa, di tutti i lavoratori che si oppongono alle arbitrarietà delle dinamiche del mercato, del liberismo spietato che impone le delocalizzazioni, i licenziamenti, la precarietà come costante di sopravvivenza in una società in cui i diritti sociali sono bombardati ogni giorno dalle decisioni di vertici che obbediscono ai soli interessi propri, alla logica del privato, alla subordinazione del pubblico alle variabili che dipendono esclusivamente dalle fluttuazioni delle quotazioni borsistiche e finanziarie.
E’ guerra anche questa. Quotidiana. Lascia ogni giorno quattro, cinque morti per le strade: sui selciati delle carreggiate urbane o ai piedi di qualche ponteggio, di una gru, oppure tra le lamiere dei macchinari o sotto il peso di carrelli elevatori… Questa guerra oggi, ma non solamente oggi, è ampiamente oscurata dalla guerra ufficiale, quella propriamente detta, quella che si prende tutti i riflettori di mezzi di comunicazione che non permettono passi una critica al metodo occidentale di sostegno alla lotta degli ucraini contro l’invasore russo.
E’ la guerra del lavoro, la guerra di classe che facciamo fatica oggi a chiamare anche solamente “lotta di classe“, influenzati da una narrazione omologante che, per consentirci di esibire una qualche rispettabilità opinionistica, ci impone di adeguare il linguaggio ai tempi e di chiamare tutto questo con termini elegantemente interclassisti, da pace sociale: come “sostenibilità economica“, “dinamiche imprenditoriali“, “compatibilità di sistema“, “alternanza scuola-lavoro“, “flessibilità“…
Gesù come è straordinariamente moderno e bello questo mondo! Se non si muore con una divisa addosso, con un mitra in mano, dicendo “Signorsì” al primo ufficiale che ti indica la linea del fronte, si rischia ogni giorno di crepare con addosso una grande borsa cubitale, con dentro del cibo, dei preservativi.
Perché magari quella sera, anche tu, che sei un modesto rappresentante del ceto medio, una specie di proletario di nuovissimo modello o un borghesuccio piccolo piccolo, hai deciso che devi staccare, mangiare senza faticare ai fornelli e fare l’amore senza dover scendere in farmacia a prendere il pacchetto di cappucci salva malattie veneree e HIV, oltre ad evitare di mettere in cinta una ragazza e dover poi entrambi affrontare le problematiche sociali, civili, bigottamente morali di una interruzione di gravidanza o decidere di tenere il bimbo e crescerlo bruciandosi la fuoriscita dall’adolescenza e l’ingresso nella maturità.
Come è straordinariamente bello questo mondo liberista, liberale, democratico e rispettoso delle idee altrui. Ti permette di dire quello che vuoi, di scriverlo sui social, salvo che non ti metti a pubblicare foto dei curdi che combattono o frasi che criticano il presidente Erdogan: così passi la sottilissima linea nera dell’etica social, quella per cui puoi inneggiare a Mussolini e Hitler, ma non puoi affermare che nella Turchia sud-orientale si stermina un popolo da decenni e che il responsabile sta ad Ankara, ma non solo….
Ai genocidi collaborano più macellai, perché gli interessi sono comuni quando ci sono di mezzo i confini. Come in Ucraina oggi: la frontiera dal Baltico al Mar Nero è divenuta una nuova Cortina di ferro che, ovviamente, separa i buoni dai cattivi, applicando un manicheismo intransigentissimo che non consente a nessuno di essere alternativo tanto a Putin quanto a Biden. Non è permesso essere accettati nel comune consesso dialettico, nei salottini televisivi dove ci si dà sulla voce e si fanno fare ascolti e profitti ai proprietari del vapore, se si osa affermare che la crimnogenia putiniana non si discosta molto da quella statunitense e dalla pavidità europea.
E’ molto comodo per i direttori dei grandi quotidiani e gli opinionisti – interventisti buttarla sul terreno fecondissimo di un moralismo patetico, costringendo i pacifisti a passare sotto le forche caudine di un pentimento figlio del senso di una colpa soltanto: non essere per niente convinti che armi su armi sia il cumulo su cui si può investire per fermare la guerra. Il “cessate il fuoco” chiesto a fucilate, a mitragliate, a bombe a mano, con lanciarazzi anticarro, con tutto quello che serve al conflitto per autoalimentarsi e che viene spacciato come “sostegno alla resistenza“, facendo paragoni dal retrogusto quanto meno discutibile, per non dire vellicanti un revisionismo storico questa volta di matrice democratica e liberale, tra partigianato italiano di ottat’anni fa e armamento dei civili nell’Ucraina di oggi.
La guerra nella guerra delle parole, della comunicazione, della creazione di un senso comune che deve sostenere lo sforzo immorale dell’autocrazia russa sul fronte orientale e della cosiddetta “civiltà occidentale” sul fronte dove ci troviamo ad essere. Dalla parte della NATO senza ombra di dubbio, perché fare i pacifisti vuol dire disertare prima di tutto la “logica” del conflitto che si inserisce pienamente in un “realismo” cui non si può sfuggire, prescindere, obliterandone gli effetti devastanti che ha anche laddove non si combatte con le armi vere, ma con quelle della propaganda.
Si muore di più ancora del solito oggi: se ogni giorno lo stillicidio dei morti, dei feriti sui posti di lavoro, per crimini organizzati o improvvisati, per guerriglie antiche o attualissime si porta via decine di migliaia di persone in tutto il mondo; se non bastano le devastazioni ambientali, le tante apocalissi che abbiamo davanti per farci intendere che la strada capitalista e liberista è sbagliata (senza se e senza ma), caso mai non fosse abbastanza evidente il tutto, ecco che la guerra in Europa porta una ventata di irragionevolezza ulteriore, un plusvalore di crimini di massa giustificati da Putin e dal suo governo (proprietà privata di un comitato di affari per i grandi oligarchi) con il pretesto della difesa del Donbass a fare da copertura alle mire espansionistiche russe.
Difesa o offesa che sia, alle tante guerre di ogni giorno si somma la vera guerra, quella che ha diritto alla G maiuscola. La guerra, oltretutto, fatta all’antica maniera, con il posizionamento delle trincee, con i carri armati che avanzano e l’artiglieria che li protegge. Con le sirene che suonano nelle città, sempre più spesso, e ti spingono nei rifugi improvvisati: sottoscale, cantine, ripari di sfortuna che diventano l’unica intercapedine tra te e la guerra. Quella con la G maiuscola. Quella che ora, come è naturale che sia, occupa tutte le scene e diventa sceneggiato, fiction, tragedia e film dell’orrore quando gli inviati sul campo penetrano negli obitori a cielo aperto e mostrano i cadaveri privi di mani, teste, piedi…
Sembra di sentire il fetore di quei poveri corpi ammassati, senza più un nome, che Putin non vuole indietro, che abbandona là dove la guerra rimane a farla da padrona.
La morte è così tanto protagonista nel capitalismo liberista che ci piace tanto… In questo mondo in cui si fa la fila per comperare un orologio che fa parte di una collezione interstellare, non tanto per metterselo al polso ma, siccome non è venduto su Internet, per poterne diventare venditori in prima persona e alzare il prezzo: se in negozio costa poche centinaia di euro (certamente meno di una bolletta di gas e luce o di qualche pieno di benzina…), lo si rimette in circolo sui grandi siti di smercio di qualunque cosa. Dai 250 euro che hai speso puoi trarre un profitto ben più grande.
Un’altra guerra, con la G minuscolissima, si intende. Ma è una guerra: all’accaparramento. Non di cibo, sull’onda di una isteria di massa alle prime improvvide notizie di una escalation del conflitto che farà schizzare i prezzi di pane, pasta, latte e carburanti alle stelle, ma di facilissimi guadagni. La febbre dell’oro non è mai finita, la caccia a nuovi territori da esplorare nemmeno. I territori internettiani, fatti di monete virtuali, di imbrogli e di truffe a tutto spiano.
Come è bello questo mondo capitalistico, liberale e democratico… Davvero tanto bello. Morirci con un fucile in mano pensando di aver combattuto per il proprio paese, per la libertà del popolo e in difesa della propria famiglia, può avere persino un senso se altrove c’è chi resta a terra privo di vita senza aver consegnato la cena che gli avevano ordinato.
MARCO SFERINI
27 marzo 2022
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