“Perché prima o poi si incazzano”. Anche gli operai, infatti, prima o poi, con più o meno coscienza di classe, più o meno comunisti che siano o anche semplicemente di sinistra, si incazzano e reagiscono ai tanti soprusi che subiscono ogni giorno.
Ma nel fare una manifestazione di protesta nel centro di Roma, i lavoratori della Ast acciaierie di Terni vengono manganellati dalla polizia. Le prendono anche Maurizio Landini e altri dirigenti della Fiom nazionale. “Volevano andare verso la stazione Termini” è la giustificazione che le forze dell’ordine danno della carica contro le tute blu.
Ma è poco convincente: in realtà i metalmeccanici muovevano verso il Ministero delle attività produttive, per andare incontro all’interlocutore che non vuole ascoltare i sindacati, quel governo di Matteo Renzi sordo alle loro richieste e prodigo di promesse invece per Confindustria, per le grandi banche e i poteri che regnano a Bruxelles.
Non sono cartoline ormai note tutte queste, sono realtà che si ripropongono nel momento in cui un esecutivo decide di trattare con i lavoratori solo a colpi di manganello. Per quasi ventiquattro ore non c’è stata poi nemmeno una dichiarazione, ma solo una vaga promessa di Del Rio che ha rassicurato sul fatto che il governo avrebbe riferito in Parlamento.
L’esasperazione è al limite: il 28% delle famiglie italiane è a rischio povertà; i lavoratori di moltissimi grandi impianti produttivi sono in cassa integrazione a zero ore, tantissimi rischiano l’espulsione permanente, il licenziamento. E la giusta causa non esiste, non è reclamabile: la giusta causa è la crisi economica che il governo gestisce sempre e solo dalla parte del padronato che vede in Matteo Renzi il paladino a guardia di interessi sempre più sproporzionati rispetto alla pauperizzazione che avanza.
E davanti a tutto questo arrivano anche i manganelli contro persone che chiedono solamente il lavoro, cioè un diritto quasi naturale, un diritto comunque sancito dalla nostra Carta costituzionale. E più un diritto è sacrosanto, più viene violato, vilipeso, violentato dall’arroganza dei poteri forti e dominanti.
La scena della carica contro gli operai della Ast di Terni ci ha trascinati alle immagini degli anni ’70, quando il fracasso delle camionette della celere era impressionante e, se vogliamo, anche più indietro nel tempo, quando vent’anni prima la polizia di Scelba era specializzata nella repressione degli scioperi.
Non è sostenibile, come qualche commentatore si affretta a dichiarare e scrivere, che il governo non abbia responsabilità in tutto questo: la gestione delle forze dell’ordine compete al ministro dell’Interno, ma la gestione sociale compete all’intero esecutivo e quindi è logico, giusto e necessario che si chiedano le dimissioni di tutto il governo, non solo quelle di Angelino Alfano.
Nessuno darà le dimissioni, questo è sicuro. Anzi, oggi Renzi probabilmente dirà che lui è a Palazzo Chigi proprio per tutelare i diritti sociali e i lavoratori.
E’ l’esatto contrario e, dopo la Leopolda numero 5, l’esasperante litania liberista del presidente del Consiglio e segretario del PD si è fatta più forte, più determinata, arricchita di metafore che rasentano la ridicolaggine e che nell’essere così semplici diventano semplifcate e banali.
Ciò dimostra che il Partito democratico è ormai plasmato a forma e figura personale e politica di Matteo Renzi. Le “vecchie guardie” che provenivano dai Democratici di Sinistra e da La Margherita sono superate, restano nel partito e rigettano l’ipotesi della scissione perché “sarebbe irrealistica” (Massimo D’Alema).
Il PD, dunque, è altro da sé stesso, da quello della fondazione veltroniana: non c’è nulla che leghi gli interessi dei lavoratori alle politiche antisociali di Renzi e del suo parterre di sostenitori sia della prima che dell’ultimissima ora.
Prendere le distanze da questo PD è prenderle da un impianto sostanzialmente di destra sia in termini economici che in termini di difesa della Costituzione nel suo insieme: il celeberrimo “Patto del Nazareno” cos’è altrimenti se non un piano di destrutturazione delle colonne portanti della democrazia repubblicana?
Alla giusta protesta operaia, alla repressione subita non viene in appoggio alcuna forza politica comunista, di sinistra comunista degna di questo nome. Siamo tutte e tutti insufficienti a ricoprire questo ruolo.
Abbiamo davanti ora due destre e nessuna forza anticapitalista che possa raccogliere il grido di dolore delle decine di migliaia di lavoratori che si gettano nella braccia di Grillo per avere almeno una voce che urla nel deserto o che ricascano nel tranello del voto utile e si legano mani e piedi ad un consenso verso un PD che poi li tradisce alla prima occasione.
La conversione politica della rabbia operaia rischia di rimanere una chimera se non si riesce quanto prima a promuovere un rilancio di una unità a sinistra che non sia pretestuosamente messa in campo come effetto ricollocativo di ceti dirigenti o di false nuove moderne sinistre nel nome del riformismo che tutto appaga e tiene sotto controllo.
Al Paese serve una forza comunista che nel suo processo rifondativo si metta al servizio di un fronte della sinistra che ospiti culture diverse, anche diverse soluzioni della crisi, ma che comprenda la necessità di non lasciare soli i lavoratori e le lavoratrici e tutti quelle persone che oggi sono debolissime davanti all’avanzata impetuosa del liberismo renziano e della sua prepotente arroganza mercantilista.
Nessuno deve rinunciare alla sua autonomia: non servono nuove formazioni di intermediazione tra il radicalismo comunista e il riformismo ben temperato di prodiana memoria. Serve un tavolo comune, degli stati generali della sinistra che non siano esclusivi ma inclusivi e che non mettano veti alla parola “comunista” o a forze che si richiamano esplicitamente al capovolgimento a 180° dell’attuale sistema economico e sociale.
Escludere le formazioni politiche comuniste da un processo di sintesi e ricomposizione a sinistra vuol dire far nascere una sinistra monca, priva di slancio, dedita soltanto al compromesso eterno con chi ancora non ha il coraggio di uscire dal Partito democratico e tergiversa, traccheggia e rimanda di mese in mese nella speranza di trovare condizioni più stabili per continuare a restare lì dove si trova.
Lo status quo è il nostro nemico. Il movimento è invece la propulsione giusta per mettere in circolo la rabbia e sconfiggere la rassegnazione passiva che già troppi danni ha fatto in nome della stabilità economica dei mercati, mascherata da stabilità degli standard di vita che oggi sono per un terzo vicinissimi alla soglia della povertà più nera.
Dentro la Leopolda le classi dirigenti si sono date un programma da seguire e hanno a Palazzo Chigi il loro conducator.
Fuori dalla Leopolda i lavoratori aspettano ancora di avere un programma politico da abbracciare e aspettano una forza politica che li guidi coinvolgendoli in un nuovo grande “Paese nel Paese”.
MARCO SFERINI
redazionale