Agorà democratiche e agorà antiliberiste

Pochi giorni fa, comparendo nel programma di Giovanni Floris su La7, Romano Prodi ha ribadito tutta la sua fiducia in Enrico Letta e nel ruolo di “federatore” di quella...

Pochi giorni fa, comparendo nel programma di Giovanni Floris su La7, Romano Prodi ha ribadito tutta la sua fiducia in Enrico Letta e nel ruolo di “federatore” di quella sinistra-centro che vuole ancora tratteggiarsi come una sorta di polo progressista in un più ampio scenario politico dalle molteplici striature, plurale e unitaria al tempo stesso. Una sorta di linea di continuità anche temporale con il vecchio centrosinistra del L’Ulivo prima e de L’Unione poi. Non fu un completo fallimento allora, se osservato da un punto di vista liberaldemocratico, timidamente keynesiano e alacremente proteso verso l’apertura di credito ad un liberismo che si affacciava sulla vita del Bel Paese iniziando a dare ordini e comandi partendo proprio da Bruxelles.

Ma fu un fallimento per quella sinistra comunista e di alternativa che partecipò, non tanto alla costituzione di un Ulivo cui rimase esternamente alleata nella forma irrituale (per certi versi persino innovativa) della “desistenza” (tanto elettorale quanto parlamentare), quanto piuttosto alla successiva ammucchiata antiberlusconiana dell’Unione: l’impossibile era diventato possibile, aveva superato il probabile e sedotto Rifondazione Comunista sulla via del governismo, facendole credere di essere parte di un progetto che avrebbe rispettato un corposo programma di 280 pagine, tra le quali trovavano spazio argomentazioni per il lavoro, contro la guerra e per uno Stato sociale rinnovato e ritrovato.

Le destre hanno sempre intimorito per il loro portato di trivialità antidemocratica, di recrudescenza autoritaria mascherata da parole d’ordine, slogan e accomodamenti istituzionali ipocriti, volti solamente a guadagnarsi un posto nel pantheon degli industriali e di larga parte delle masse popolari, modernamente proletarie.

Le destre, berlusconiane prima e salvinino-meloniane poi, spaventano tutt’oggi, ancora di più in tempi di pandemia, in tempi in cui l’esacerbazione degli animi è ai massimi livelli ed ogni contraddizione tra popolo e istituzioni è il pretesto per allargare la divisione, per diffondere sfiducia nella democrazia e per cercare una soluzione che contempli (se non detto più così apertamente) quei “pieni poteri” paventati nella canicola estiva di qualche anno fa e un ruolo del governo sempre più prepotente rispetto agli altri organi fondanti la Repubblica.

Ma un po’ tutti hanno provato ad oligarchizzare lo Stato nel recente passato: perché mai deve essere dimenticato che proprio il PD, sotto la guida di Renzi, tentò di mettere da parte il Senato della Repubblica e farne una docile, addomesticata assemblea al servizio dell’esecutivo; così come non ci si deve dimenticare del referendum tenutosi appena un anno fa, che ha ridotto il numero dei parlamentari aprendo la via delle controriforme ad una serie di sconvolgimenti tecnico-politici riguardanti non solo chi siede nelle due Camere ma intrinsecamente il rapporto diretto con l’elettorato, con la popolazione rappresentata in quelle Aule.

Solo la sinistra di alternativa è rimasta immune da queste tentazioni di sovvertimento della Repubblica parlamentare, democratica e antifascista. Solo la sinistra di alternativa, nella sua residualità attuale, ha mantenuto un carattere fermo nel prendere atto della sua minoritarietà senza condividerla e accettarla, ma non per questo tornando a farsi carezzare da pelose idee di ritorno ad una elaborazione concettuale, programmatica e pratica per riavvicinarsi a quel campo del socialismo democratico dove oggi Letta si muove con una certa agilità, dopo aver trovato le macerie di un progetto biculturale e plurideologico che ha fallito sotto tutti i punti di vista.

La costituente federativa delle “agorà democratiche” è un’idea interessante che andrebbe mutuata, se non altro nel suo tentativo di avvicinare gli inavvicinabili, coloro che vivono la politica così da lontano da sentirsene nemmeno lambiti quando diventa evidentissima nel profluvio di proposte, nella sovrabbondanza di retorica e di banalità estenuanti proprie di ogni campagna elettorale.

Una moderna sinistra “di classe“, deve sviluppare la sua analisi della società mediante un confronto con la propria “base” di riferimento, con i propri iscritti (che dovrebbero condividere a tutto tondo almeno il progetto di alternativa di società, le grandi linee e il cosiddetto “programma massimo“), nonché con l'”inchiesta” che un tempo si dedicava al mondo del lavoro (e del non lavoro). E’ una pràxis consolidata, un metodo che interpreta l’esigenza di condividere dalle linee generali al programma particolareggiato, calato nel presente della quotidianità di tutti.

Da almeno due decenni non siamo più abituati a raffrontarci, anche congressualmente, con la dualità inseparabile tra teoria e prassi, tra elaborazione e sviluppo concreto delle idee e dei progetti che abbiamo per provare a cambiare la società in senso progressista, socialista, comunista. Al tempo delle grandi alleanze uliviste e unioniste abbiamo concesso troppo al lato pragmatico, tralasciando la connessione che si era creata con i movimenti, con i lavoratori e con il mondo della precarietà. Nella lunga traversata nel deserto dell’extraparlamentarismo coatto, abbiamo invece scisso, forse per disperazione (non credo per rassegnazione), il ruolo istituzionale del Partito dalla sua presenza nella società.

In entrambi i casi abbiamo commesso due gravi errori di polarizzazione delle nostre poche forze e abbiamo costretto le compagne e i compagni soprattutto, ma anche chi ci ha continuato a guardare come ad un punto di riferimento per quel che rimaneva della sinistra di alternativa, ad uniformarsi ad un unica interpretazione del reale, senza permettere che si facessero avanti critiche a questo manicheismo logorante e deprimente. Non è stata una esplicita volontà dei gruppi dirigenti, perché anche di questo sarebbero incapaci, sballottati come sono nella lotta una autoconservazione che sopravvaluta di molto la crisi verticale della politica italiana e, segnatamente, quella della sinistra e dei partiti anticapitalisti. E’ stata qualcosa di peggio: una pigrizia mentale, un lasciarsi andare e farsi guidare dalla “natura delle cose”, da una esternità dei processi politico-sociali senza provare in alcun modo a condizionarli.

Intendiamoci: non è una peculiarità solo della sinistra antiliberista italiana questo attendismo non cercato, ma tollerato. Siamo consapevoli un po’ tutti della mutevolezza dei tempi, della rapida successione di eventi che hanno mutato le relazioni interne ai partiti e che hanno cambiato radicalmente il rapporto tra istituzioni e popolazione. Ma, proprio per questo, dovremmo fare uno sforzo in più rispetto a quello di elaborare tesi congressuali articolate, facendo finta che tutto intorno a noi sia ancora sopportabile.

Da un punto di vista diametralmente opposto al nostro, di noi comunisti, il PD sta facendo un’operazione intelligente con le “agorà democratiche“: cerca una connessione, un dialogo aperto soprattutto a chi non guardava al centrosinistra, a chi ne era lontano, così come a chi si è riavvicinato e sta pensando di rientrare nel partito che aveva lasciato nella stagione renziana. Bersani e Speranza vanno in questa direzione che è coerente con la loro storia di socialdemocratici, di socialisti europei e così via.

Dovremmo riflettere su una operazione simile. Noi, Rifondazione Comunista, dovremmo andare oltre l’XI Congresso nazionale, che risulta più che altro essere un fatto tutto interno al Partito, e avviare una costituente risolutiva per la sinistra di alternativa, per una sinistra veramente plurale, veramente sinistra: dove possano trovare posto e dialogo posizioni differenti e si possa riattivare un principio dialettico rinnovato, veemente, senza incistare il dibattito sulle alleanze sul solo momento elettorale, ma riconsiderando i nostri rapporti di forza e i nostri rapporti politici nel contesto italiano ed europeo.

E’ evidente che il campo socialista e democratico non può essere quello entro il quale muoversi per dare vita ad un progetto di rifondazione della sinistra anticapitalita e di alternativa: ma se vogliamo dare respiro ad una visione di lungo corso, non possiamo rinchiuderci in una esclusività che è presunzione e che non è “fare politica“, ma fare mera testimonianza della politica che vorremmo fare.

Un pensierino a delle “agorà antiliberiste” potremmo farlo, no?

MARCO SFERINI

23 settembre 2021

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