Pressapoco nella prima metà dell’Ottocento la descrizione teleologica dell’esistente, che in questo caso era appellato come “Creato” con la ci rigorosamente maiuscola, fu affiancata da un filone critico che andò, via via che lo studio delle scienze naturalistiche prendeva campo e si diffondeva in buona parte dell’Europa e delle Americhe, approfondendosi in quanto metodo di indagine sull’origine tanto della vita in senso lato quanto di quella degli esseri umani in senso più stretto.
Già all’inizio dell’Ottocento, prima ancora che emergano gli evoluzionisti pre-darwiniani, è Charles Lyell, di professione avvocato e giornalista, a formulare una serie di “Nuovi princìpi della geologia” da cui proprio lo stesso Darwin prenderà spunto per andare ancora più a fondo nelle ricerche che interconnetteranno la sua teoria e che gli consentiranno di argomentare con una encomiabile pacata pazienza alle tante obiezioni che gli pioveranno addosso.
La teoria di Lyell oltrepassa il catastrofismo che lo aveva preceduto, in quanto concezione quasi archetipa di una evoluzione affidata agli sconvolgimenti violenti della materia e alle grandi distruzioni rivoluzionarie avvenute a causa di malattie globali, pandemie, epidemia, terremoti ed altri effetti di dimensione sovra-umana che, quindi, prescindevano dalla volontà dell’essere vivente e, quindi, finivano per comprenderlo in un determinismo, se non proprio meccanicistico, almeno in una sorta di impotenza nei confronti del fatalismo.
Lyell si interroga sul perché anche in assenza di queste catastrofi il processo di mutamento dell’ambiente, delle specie animali e di quella umana proceda senza sosta. Seppure sembri impercettibile, quella che Darwin chiamerà “la variazione” degli elementi, che si interscambiano senza sosta e senza un apparente regia e controllo dall’alto, ma piuttosto obbedendo a leggi propriamente fisiche e biologiche, è in atto senza soluzione di continuità.
La domanda, pertanto, che i primi naturalisti moderni si pongono è, contrariamente alla soluzione creazionista, a monte dei loro studi scientifici, comprovabili esperimento dopo esperimento, perché esista un rapporto di causa-effetto nella materia e cosa lo renda effettivamente tale, insito negli elementi, capace di essere il motore invisibile dell’evoluzione nel nostro caso, della trasformazione delle cose inanimate in molti altri casi.
Per quanto vi si applichino, tanto Lyell, quanto gli altri geologi, biologi, medici e scienziati non arrivano a poter dare una risposta concretamente verificabile mediante il metodo dell’analisi e dello studio ripetuto con osservazioni che vadano oltre il mero campo della deduzione. Vero è che la concezione uniformista che ne viene fuori, pur superando il catastrofismo, non ci fa approdare ad una novità in tutto e per tutto.
L’uniformità a cui ci si riferisce è, più che altro, la consequenzialità degli eventi: dalle catastrofi dei millenni trascorsi si produce l’odiernità, l’oggi, l’immediatezza della conoscenza qui ed ora, ma nulla di più viene aggiunto al quesito insolubile delle leggi che regolano la materia e le sue trasformazioni. Si possono studiare i rapporti, appunto, scendendo nel profondo atomico e quarkiano, ma non si arriva mai all’avvicinare il campo fisico a quello metafisico.
Eppure non esiste, di per sé, una antitesi sostanziale, una pregiudiziale da estremi opposti che, in qualche maniera e non si sa mai bene come, finiscono per tangersi. Ed è proprio in questo tenebroso fondo del dilemma che ha i contorni infiniti (quindi più che assurdi per il nostro limitato schematismo mentale razionale umano) a convincere Lyell che la scienza non deve occuparsi delle origini dell’Universo. Il titanicissimo enigma è tema – sostiene – degno di un teologo, non di chi prescinde dalla metafisica.
C’è, pertanto, nell’interpretazione del metodo di indagine geologica un approccio assolutamente storico e, per questo, fortemente naturalistico: osservare ripetutamente lo svolgersi dei momenti, le trasformazioni comportamentali di una pianta, di un reperto archeologico, di un essere vivente tanto animale umano quanto animale non umano, sono alla base del moderno parallelizzarsi tra indagine storica e indagine bio-antropo-geologica.
Ciò che del catastrofismo non convince, molto più di altri sottoinsiemi teoretici che lo costituiscono e lo hanno alimentato, è per Lyell il grande numero proprio di eventi naturali che si sono susseguiti nel corso dei secoli. Se ad ogni avvenimento di questa natura devastante avesse dovuto corrispondere una mutazione evoluzionistica, noi, tanto nell’Ottocento quanto oggi, a distanza di due secoli, dovremmo essere molto, ma molto differenti rispetto a ciò che invece siamo.
Seppure i naturalisti pre-darwiniani inglesi non amino il riferimento probante per le loro teorie (perché ancora a questo stadio ci troviamo in allora quando parliamo di evoluzionismo) a testi ritenuti sacri o, comunque, propriamente religiosi, la tentazione di smontarne le ricostruzioni creazioniste è forte. Ci si domanda infatti: ma se il diluvio universale è veramente accaduto e ha sommerso tutte, ma proprio tutte le terre, facendole scomparire al di sotto del livello delle acque per spazzare via l’umanità di allora, da dove arrivava la colombella col ramoscello d’ulivo approdata sull’arca di Noe?
Se, infatti, esistevano ancora forme di vita animali e piante, qualche porzione di terra doveva essere stata risparmiata dai quaranta giorni e quaranta notti di pioggia torrenziale sul globo terracqueo… È evidente, per quanto scritto fino ad ora, che uno studioso come Lyell doveva prestare molta poca considerazione a speculazioni di questo orientamento da accademia ellenica, da ricerca delle contraddizioni al fine di trovare elementi di confutazione del creazionismo dominante.
Molto più interessanti saranno le domande che Darwin si porrà sull’origine geografica della specie umana. Qui troveremo come caratteristica fondante della domanda un ragionamento anche di impronta scientifica, supportato o, se volete, corroborato da un interrogativo storico. Se al principio della formazione di una determinata specie di esseri viventi vi è appunto un nucleo di primordiali, di progenitori, questi si saranno trovati in un preciso luogo della Terra e da lì si saranno successivamente diffusi in tutto il globo.
Il tentativo di scoprire, in questo frangente, l’origine geografica dell’essere umano sarà uno degli impegni dell’ultimo periodo di ricerche del grande naturalista, padre dell’evoluzionismo moderno. Prima di tutto si rese conto, grazie agli studi dei fossili, la cui precisione era relativa e non consentiva quella certezza di dati che invece sarebbe stata opportuna per dare sostanza alle controdeduzioni nei confronti delle critiche gli piovevano addosso e che aveva messo in conto ben prima dell’editazione de “L’origine delle specie“, che il processo formativo degli esseri viventi era rapido rispetto alla sua stabilizzazione.
Ciò permise a Darwin di spiegare i fenomeni migratori, e non solo umani, ma anche di semplici semi di piante beccati dagli uccelli e portati chissà dove in forma di feci, per significare come l’endogena complessità dei rapporti tra tutti i protagonisti dell’esistenza fosse il piano oscillante di quell’evoluzionismo in cui a tutto era possibile dare una spiegazione assolutamente scientifica e storica: del comportamento del singolo quanto della comunità.
Non ci sono nella scrittura darwiniana tentativi di teorizzazioni di ponti immaginari che hanno consentito agli esseri umani e agli animali di spostarsi da continente a continente e di trovarsi poi sviluppati oltre i confini dei mari e degli oceani e in modo piuttosto uniforme, seppure dissimilmente per pigmentazione, usi e costumi.
Semmai, la spiegazione che egli cerca sta proprio in quelle forme di “trasporto” di cui si è accennato prima: è stata anche la casualità a determinare l’evoluzione delle specie. Una casualità che, affidatasi all’istinto animale umano e animale non umano ha permesso ad un pesce di acqua dolce di arrivare nei pressi di una costa, di essere divorato da un uccello i cui escrementi, depositati in tutt’altro lontano luogo, hanno dato il via ad un processo di variazione inaspettato.
Oggi sappiamo che, circa sette milioni di anni fa, gli ominidi – i primi veri rappresentanti della specie umana – ad un certo punto sono divenuti tali in un processo di evoluzione che li ha separati dagli scimpanzé e ne ha fatto i progenitori di ciò che siamo tutt’oggi. Ardipitechi, Australopitechi e Homo Sapiens sono tra i generi più noti di uomini primitivissimi conosciuti anche da chi non ha familiarità con gli studi antropo-paleontologici. Quale sia stata la culla dell’umanità è solo ipotizzabile.
Questo perché, fino ad ora, gli scavi hanno rivelato ciò che sappiamo e che è l’ultimo tassello di conoscenza in merito che, tuttavia, non è risolutivo, perché i progressi scientifici potrebbero aprire nuovi scenari sull’origine geografica della specie dei Sapiens. Nella zona dove insiste la lacerazione tra due possenti placche tettoniche della crosta terrestre, nel cuore dell’Etiopia, per intenderci, lì stanno i depositi di fossili più interessanti, perché sono quelli più databili indietro nel tempo.
Celebre è “Lucy“, il reperto A.L. 288-1, costituito da tantissimi pezzetti di uno scheletro di australopetico femmina scoperto nel 1974 nella zona di Hadar, sempre in Etiopia. Sembra abbastanza certo che abbia una età di oltre tre milioni di anni. Tralasciando il racconto biblico di madre Eva, pare questa, per ora, la “prima donna” conosciuta e conoscibile, da cui sicuramente molte e molti di noi possono vantare le remotissime origini…
Battute a parte, tanto per Lyell quanto per Darwin, le ricerche che nell’Ottocento potevano supportare geograficamente i primordi della teoria evoluzionistica erano molto poche e disadorne di elementi probanti che costituissero, in questo senso, un, se non solido, almeno sufficiente substrato scientifico ininterpretabile e, quindi, dimostrabile attraverso qualcosa di più di un semplice metodo empirico.
Gli anatemi della Chiesa si scagliarono, come era ovvio, sull’evoluzionismo che gareggiava sempre più energicamente col creazionismo, fino a metterne in crisi il primato bimillenario. Se è possibile trovare, quindi, un significato filosofico all’opera dei naturalisti e degli evoluzionisti, ciò non è riscontrabile solamente nello squarcio del velo di obnubilazione che le religioni hanno imposto all’umanità dalla notte dei tempi.
La scienza, a differenza del teleologismo, non intende spiegare tutto, ma indagare ciò che ha sotto i suoi occhi, a partire ovviamente dai reperti del passato e, quindi, non rimanere immobile nell’immanenza del presente, bensì proiettandosi molto indietro nel tempo per ragionare anche sui possibili sviluppi futuri delle specie, della vita, dell’esistenza, del comportamento della materia.
Ovvio che “L’Origine delle specie” ha impresso alla scienza stessa una spinta rivoluzionaria anche sul piano della considerazione dei rapporti con sé stessa, oltre che con le religioni, le fedi, le credenze e tutto quanto attiene ad un ambito propriamente metafisico. La cultura occidentale, così come quella pressoché mondiale, ha accolto queste nuove teorizzazioni talvolta con entusiasmo e tante altre volte con un freddo sospetto un po’ narcisistico, tipico di un edonismo culturale molto simile alla presunzione cattolica o religiosa in senso lato.
Grande importanza nell’acquisizione progressivamente veloce dell’evoluzionismo nel novero delle scienze ha avuto il metodo con cui Charles Darwin si è proposto tanto al pubblico dei colleghi studiosi quanto al più vasto parterre di contestatori popolari, giornalistico-intellettualistici dell’epoca. Il confronto è stata la sua cifra. Non lo scontro.
L’aver capovolto le asserzioni di Paley, confutando passo dopo passo le affermazioni contenute nella sua “Teologia naturale“, ha, oltretutto, permesso al darwinismo di regalare una prova certa sul fatto che gli esseri viventi, per quanto perfetti potessero essere, avessero ad esempio i denti per via di una evoluzione del loro sistema di masticazione e nutrimento e non, invece, per un volere divino.
Rimaneva da spiegare con grande pazienza che anche le più complicate modificazioni naturali fossero dettate da un adattamento di ogni essere vivente nel contesto della reciprocità incommensurabile di rapporti quotidiani tra tutte le specie, tra tutto ciò che di vivo esiste sul pianeta Terra.
Ciò a cui la scienza non può, e forse per dirla con Lyell, non deve provare a rispondere è la finalizzazione del tutto. Il principio primo da cui siamo tentati di far discendere ogni variazione della materia, oltre che la materia e l’immateriale stessi. Perché esistano quei comportamenti, a cominciare dallo scontro bigbanghiano tra le primissime particelle di energia, perché ad una azione corrisponda una reazione che sembra innata nell’azione stessa. A retroattiva catena… Lì il dubbio della creazione si insinua.
Lì la scienza non può arrivare, così come non può spiegare il “senso” del tutto, dell’Universo, della sua profondità inimmaginabile, del suo mistero destinato a rimare tale per sempre.
MARCO SFERINI
19 maggio 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria