Ieri, nella base militare di Herat, la cerimonia di ammaina bandiera del contingente italiano. La guerra afghana per «difendere la pace e la legalità internazionali» è chiusa, ma non viene meno il sostegno dell’Italia, ha assicurato il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini.
Accompagnato e ripreso da 40 giornalisti embedded, Guerini ha ringraziato i soldati per aver saputo «cogliere le esigenze del popolo afgano e delle sue istituzioni che abbiamo accompagnato nel percorso di costruzione di un paese più sicuro, più libero e più democratico».
È sfortunato, Guerini. Eredita il compito più difficile. Ai predecessori, negli anni passati, quello di rassicurare sui progressi, sui Talebani indeboliti, sconfitti, ridotti alla resa. Di giustificare lo strumento della guerra di fronte ai cittadini di un Paese che per Costituzione la ripudia. Di chiedere, anno dopo anno, la messa in bilancio di milioni di euro per una guerra con obiettivi mutevoli: democrazia, diritti delle donne, lotta al terrorismo, protezione della popolazione.
A lui, ieri a Herat, dentro la base militare che per tanti anni è stato il centro delle attività del contingente italiano, a lungo responsabile di un’area – le province occidentali di Herat, Ghor, Farah, Badghis – mai del tutto ricondotta sotto il controllo governativo e oggi sotto scacco dei Talebani, il compito di chiudere la partita cercando di salvare la faccia.
Compito impossibile. Lo strumento della guerra ha fallito. Da un bel pezzo. Non ha portato stabilità e sicurezza, ma altra guerra, nuove vittime. Nei primi 3 mesi del 2021, secondo i dati resi pubblici ad aprile da Unama, la missione dell’Onu a Kabul, sono 573 i morti e 1210 i feriti, con un aumento complessivo del 29% rispetto allo stesso periodo del 2020.
La bandiera ammainata a Herat simboleggia la fine della guerra italiana in Afghanistan, non della guerra afghana. Nel Paese si continua a combattere. Più di prima.
L’accordo bilaterale tra Talebani e Washington firmato a Doha nel febbraio 2020 ha messo fine al conflitto tra gli americani e la guerriglia in turbante nero. Non a quello tra Talebani e forze governative. La scelta dell’amministrazione Trump di accordarsi in modo bilaterale con i Talebani li ha rafforzati. Ne è uscito indebolito il governo, escluso dal tavolo delle trattative. Il successivo dialogo intra-afghano è partito squilibrato. Nelle mani dei Talebani, il riconoscimento di Washington, 5.000 detenuti liberati e il traguardo più ambito: il ritiro delle truppe straniere.
Con l’accordo di Doha, Trump prometteva ai Talebani di far fare le valigie a tutti i suoi soldati entro il 31 aprile 2021. Biden ha posticipato all’11 settembre. Ma le truppe potrebbero rientrare a casa prima. Ieri il generale Frank McKenzie, a capo del Centcom, ha dichiarato che «metà del ritiro è stato completato».
Anche quello dei soldati italiani è stato accelerato. Tutti si chiedono entro quando saranno «tutti a casa»: 4 luglio, metà luglio, settembre? Pochi chiedono un bilancio politico della guerra e cosa farà l’Italia per non abdicare alle proprie responsabilità verso l’Afghanistan.
GIULIANO BATTISTON
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