Non voleva essere ricordata come una «mujer maravilla», ma Hebe de Bonafini, scomparsa alle 9.20 di domenica all’età di 93 anni, di sicuro non è stata una donna comune. Nelle sue ultime volontà aveva chiesto che si pensasse a lei come una madre di 30mila figli scomparsi che non aveva mai smesso di lottare. E che non si piangesse la sua morte, ma si ballasse, si cantasse e si facesse festa a Plaza di Mayo, nel luogo che, dietro sua richiesta, ne accoglierà le ceneri. «Perché – ha lasciato scritto – ho fatto quello che ho voluto, ho detto quello che ho voluto e ho litigato per quello che ho voluto».
Ma se il governo ha decretato tre giorni di lutto, la festa che desiderava, come hanno annunciato le Madres de Plaza de Mayo, Hebe l’avrà giovedì, nella “sua” e loro piazza, là dove Kika, come la chiamavano gli amici, è diventata Hebe, un simbolo della resistenza alla dittatura, il dolore trasformato in lotta, un grido che ha saputo rompere il silenzio della maggioranza.
Non era lì il 30 aprile del 1977, quando, per la prima volta, 14 madri di ragazze e ragazzi sequestrati dai corpi di sicurezza della dittatura avevano protestato con il fazzoletto bianco sulla testa davanti alla Casa Rosada.
Ma si sarebbe unita a loro pochi giorni dopo, dedicando tutta se stessa prima alla ricerca dei suoi figli e poi anche a quella di tutti i figli e le figlie desaparecidos, in una rivendicazione di maternità collettiva.
Da allora, ogni giovedì, per i successivi 45 anni, lei e le altre madri avrebbero continuato a percorrere quella piazza, fermandosi solo durante la pandemia (ma anche allora proseguendo in modalità virtuale).
Hebe, nata in un quartiere popolare di Ensenada, aveva sposato Humberto Bonafini, operaio come suo padre, e poco tempo dopo aveva partorito Jorge, nel 1950, e, tre anni dopo, Raúl. Ma la sua vita felicemente ordinaria si era interrotta bruscamente l’8 febbraio del 1977, quando Raúl l’aveva chiamata per darle la notizia: si erano portati via Jorge.
Poi, il 6 dicembre, era stato il turno di Raúl, due giorni prima che due delle Madri venissero sequestrate nella chiesa di Santa Cruz. Nel 1978 lo stesso destino avrebbe colpito anche sua nuora, la compagna di Jorge.
Nel 1979 Hebe era stata eletta presidente delle Madres, che poi, dopo il ritorno della democrazia, si sarebbero divise in due gruppi: da una parte l’associazione da lei guidata, dall’altra la Línea Fundadora. Una rottura dovuta a divergenze di natura personale – la sua gestione era considerata da alcune troppo autoritaria e verticistica – e soprattutto politica, a causa del suo rifiuto, non condiviso da altre associazioni di difesa dei diritti umani, ad accettare le esumazioni dei corpi («Il rivoluzionario non muore mai») e i risarcimenti («Ci ripugna prendere i soldi dalle stesse mani che hanno concesso l’impunità agli assassini»).
La sua lotta non si sarebbe più fermata, prendendo a bersaglio le forze armate genocide, le complicità di medici, giudici, vescovi e sacerdoti con il terrorismo di stato, le leggi dell’impunità di Alfonsín, gli indulti di Menem, gli appelli alla riconciliazione senza giustizia, gli orrori neoliberisti.
Era scomoda Hebe, sempre diretta, spesso estrema, a volte eccessiva. Molto lontana dal politicamente corretto, molte volte incline all’insulto. Con alcune delle persone che poi avrebbe amato aveva avuto inizi turbolenti: aveva attaccato Fidel Castro per aver salutato Alfonsín dopo le sue contestate leggi (e per questo lui non l’aveva ricevuta nel suo primo viaggio a Cuba), aveva diffidato di Chávez perché era un militare, aveva definito Néstor Kirchner, al suo arrivo alla presidenza, come «la stessa merda con un odore diverso», prima di stringere un’alleanza – da alcuni criticata come un troppo docile allineamento – con lui prima e con Cristina poi.
E aveva parlato di Bergoglio, all’epoca arcivescovo di Buenos Aires, come «spazzatura che si opporrà sempre a chi, come Néstor Kirchner, vuole fare bene le cose», per poi cambiare idea di fronte alle parole e ai gesti di papa Francesco, che l’avrebbe ricevuta a Santa Marta nel 2016 e a cui avrebbe chiesto perdono («Bisogna scusarsi quando si sbaglia»).
CLAUDIA FANTI
da il manifesto.it
Foto di Matheus De Moraes Gugelmim