Ad una passo dalla sovranità popolare alla maestà governativa

La cavalcata verso la controriforma premieristica di Giorgia Meloni e della sua maggioranza avanza nell’iter parlamentare delle Camere. Lì, in quelle aule in cui, immediatamente dopo la possibile entrata...

La cavalcata verso la controriforma premieristica di Giorgia Meloni e della sua maggioranza avanza nell’iter parlamentare delle Camere.

Lì, in quelle aule in cui, immediatamente dopo la possibile entrata in vigore dello stravolgimento costituzionale, si sentirebbe con maggiore efficacia tutto l’effetto dirompente del dissolvimento di ciò che rimane della Repubblica parlamentare, della centralità del luogo deputato (è proprio il caso di dirlo) all’interpretazione primaria della volontà popolare.

La destra estrema di governo, che da sempre sogna la torsione autoritaria e autocratica del e nel Paese, ha l’occasione propizia. Eppure rischia grosso. Perché la sola maggioranza semplice non basta – per grande lungimiranza dei Costituenti – per cambiare la Carta del 1948. Serve quella dei due terzi dei due rami del Parlamento.

E questi numeri Giorgia Meloni non li ha. Nonostante gli occhi dolci di Italia Viva, che definisce comunque uno “schifitellum” il tutto, la destra non arriva alla soglia prevista di deputati e senatori per poter evitare il referendum confermativo.

Gran spauracchio. Perché nessuno, negli ultimi tentativi di sovvertimento del bicameralismo, a parte la questione concernente la populistica proposta di riduzione del numero dei deputati e dei senatori, è riuscito a passare la forca caudina del consenso del popolo.

La bocciatura più eclatante rimane quella dei Renzi e del fantasma del “tutti a casa” dopo il tracollo referendario. Giorgia Meloni teme tutto questo, ma da abile affabulatrice prova ad aggirare la paura del boomerang mettendo avanti l’argomento del cambiamento.

Preferite quello che fino ad oggi avete avuto o qualcosa di completamente diverso che, tuttavia – sostiene – , non farebbe altro se non aumentare l’incisività della delega popolare, conferendo un mandato pieno ad un premier che avrebbe il potere di sciogliere le Camere, di sostituirsi praticamente al Capo dello Stato, di giudicarsi da solo in quanto a permanenza o meno a Palazzo Chigi?

L’urlo della folla pare di sentirlo: almeno della sua di folla, di quella parte minoritaria di popolo che l’ha votata. Non va dimenticato che questa controriforma incostituzionale sarebbe approvata da un Parlamento in cui la maggioranza rappresenta appena poco più del 27% di coloro che sono recati alle urne nel settembre 2022.

Questa osservazione varrebbe per qualunque schieramento politico che tentasse una operazione di questo tipo. Costituzionalisti e grandi politici del recente passato hanno sempre, più che opportunamente, osservato che la riforma delle regole comuni deve avere un carattere comune. Quindi deve riguardate tutti.

E se non è proprio possibile una condivisione totale, quanto meno va ricercata con strumenti e mezzi che mettano insieme, anche al di fuori dell’ambito strettamente parlamentare, il maggior numero possibile di rappresentanza dei cittadini.

Ci provò Massimo D’Alema, a suo tempo, con la famigerata Commissione bicamerale. Fu un naufragio più politico che tecnico, ma tant’è fu così. Ci provarono Berlusconi e poi, appunto, Renzi, ma i risultati non arrivarono. Perché su una materia delicata come quella del cambiamento radicale della vita istituzionale del Paese, una risposta popolare di tutela della Carta è sempre arrivata.L’era meloniana è piena di incognite e non si sa dove possa portare, anche in questo caso.

Non pensiamo, per il fatto che le destre sono, in epoca di alta disaffezione da parte della gente nei confronti della politica e della democrazia stessa, che la minoranza che riesce a farsi maggioranza, che la strada sia spianta: né nel caso in cui si ipotizzi un successo della proposta di premierato, né nel caso esattamente opposto. Siccome, quindi, niente può essere dato per certo, vale la pena essere più pessimisti con la ragione ma continuamente ottimisti con la volontà.

E quindi dalla posizione difensiva della Costituzione si deve passare a quella offensiva delle opposizioni, tanto nel Parlamento quanto soprattutto nel Paese largo e diffuso. Perché i numeri delle forze che fanno muro contro la proposta meloniana li conosciamo: sono insufficienti ad una modifica o ad uno stop della controriforma.

La presentazione di oltre tremila emendamenti al testo presentato dal governo potrà rallentare l’iter della legge di revisione costituzionale, ma non sarà nemmeno un vero e proprio ostruzionismo.

Questa maggioranza intende andare avanti senza curarsi della necessità di un dialogo con le opposizioni-minoranze. Vuole la sua riforma e la vuole a tutti i costi, per dare al governo un ruolo di centralità rispetto agli altri poteri dello Stato, sovvertendo così la funzione primaria della forma repubblicana e democratica: l’essenza prima del ruolo del Parlamento nella vita dell’intero Paese. Non è certo da oggi che registriamo un deperimento del ruolo affidato a deputati e senatori.

La centralità del potere legislativo è qualcosa di differente dalla centralità del Parlamento: funzione e rappresentanza della medesima dovrebbero coincidere, ovviamente; ed invece, proprio da qui i governi hanno proceduto per ridurre la Camere ad un ruolo sempre più marginale.

Da protagonista ed interprete della volontà popolare, le assemblee camerali sono state fatte somigliare ad un grigio burocrate notarile che legge, osserva e approva o respinge. Il dibattito, un tempo capace di diventare diffusamente oggetto di discussione politica di massa, oggi è uno stanco rito di rimpallo tra maggioranza ed opposizione.

Frutto avvelenato, anche questo, della travolgente voglia di bipolarismo che ha accecato quasi tutti i partiti dalla trasformazione antiproporzionalista agitata da Mario Segni che, fin dagli anni ’90 del secolo scorso, andava parlando del “sindaco d’Italia” e, purtroppo, non era il solo.

Se le argomentazioni a favore del premierato – caso di creazione di una figura istituzionale davvero unica al mondo… – risiedono quasi tutte nella critica ad un parlamentarismo che avrebbe fallito come reggente la stabilità dei governi mediante la dialettica tra le diverse parti in causa, non si può certo dire che il presidenzialismo se la passi bene.

Né in Europa e tanto meno là dove dovrebbe essere l’emblema della democrazia quasi ante litteram, nella patria del liberalismo democratico: gli Stati Uniti d’America.

Pesi e contrappesi costituzionali non funzionano come dovrebbero, perché la crisi economica spinge le forze populiste e sovraniste ad una commistione con un piano economico-finanziario che inquina i rapporti tra i poteri e altera quelli tra istituzioni e base popolare. Una analisi seria in merito si può fare, anche in un confronto con le destre, se si esce dal puerilissimo schematismo tra fortezza premieristica e debolezza parlamentare.

Questa antitesi non gioca a favore di nessuna delle due opzioni in campo: l’ingresso della nuova figura del Premier con la pi maiuscola, che fa le veci del Presidente della Repubblica, la cui pi iniziale diventa invece minuscola…, associata alla riforma autonomistico-differenziata, darà il via ad un cortocircuito tra centro e periferia, tra Stato e Regioni.

Il primo con un Parlamento rimpicciolito nelle sue mansioni di legislatore, subordinato alla volontà del governo; le seconde con sempre maggiori poteri nella gestione, oltre che delle scuole e della sanità, anche dei trasporti, della portualità.

Quindi si interviene in settori in cui la commistione tra pubblico e privato è purtroppo dilagante e dove, quindi, il rischio di tangentocrazia è più evidente che mai. Basti guardare cosa sta accadendo in Liguria con il ciclone dell’inchiesta su Toti e su quello che appare sempre di più prendere i connotati evidenti di un sistema di potere, peraltro descritto come tale dai magistrati che vi hanno indagato per oltre quattro anni e che hanno messo nero su bianco il tutto in seicentocinquataquattro pagine di ordinanza di custodia cautelare per gli inquisiti.

Quella che viene descritta dal melonismo come una evoluzione della rappresentanza popolare nell’investitura del premier forte, praticamente quasi solo al comando, è invece l’inganno più plateale in merito. Un voluto, ispirato fraintendimento del rapporto tra elettori ed eletto: il popolo non decide, viene fatto decidere. Non delega, viene indotto a delegare.

Gli viene suggerita la risposta prima ancora che gli sia formulata la domanda. E la domanda, nemmeno a dirlo, è palesemente retorica. Mussolini dai tanti balconi che frequentava, troneggiando mascellarmente e ponendo le mani ai fianchi, esponeva tutto sé stesso verso la folla: protendeva la fisicità e il tono fermo, icastico, frammentato del discorso. Tecnica e abilità oratoria, non c’è dubbio.

Ma pure una palese recitazione che, tuttavia, doveva in qualche modo affascinare per non essere irrisa platealmente e diffusamente. Non che il regime fascista lo permettesse, si intende. Ma, nonostante ciò, il leader che pensa per tutti e che diventa il grande padre (o la grande madre, in questo caso) del Paese, meglio ancora della Patria, piace perché deresponsbilizza.

Ci pensa lui a noi. E qui sta il guaio. Perché in una democrazia compiuta, il controllo popolare è necessario e inalterabile. Se il Parlamento è il luogo istituzionale preposto a ciò, perché ha la delega diretta del popolo, non può esservi nulla e nessuno negli altri poteri che sia al di sopra del Parlamento stesso. Tant’è che sono le Camere riunite in seduta comune ad eleggere il Capo dello Stato ed, eventualmente, a metterlo in stato di accusa per alto tradimento o attentato alla Costituzione.

Tant’è che è il Parlamento che sfiducia i governi e non sono i presidenti del Consiglio a decidere se andarsene o ridarsi da sé stessi il mandato perduto con una maggioranza andata in briciole. Il presupposto verticistico è, quindi, connaturato al premierato che non amplia i poteri legislativi dell’orizzontalità parlamentare, ma li mortifica, rendendo le Camere ancora di più il notaio ratificatore delle decisioni dell’esecutivo.

La fragilità permanente della nostra democrazia non sopporterebbe un mutamento di questa natura. Per dirla schiettamente e senza troppi giri di parole: la scelta è tra eccellenza governativa o centralità parlamentare. L’equipollenza dei poteri nella differenza dei ruoli pone le Camere un gradino al di sopra dell’esecutività di Palazzo Chigi.

Si ribaltano, invece, con al controriforma meloniana proprio questi rapporti costituzionali di una reciprocità che  non può, per sua natura, essere completamente tale. Il rispetto delle prerogative è reciproco. Ma le differenti funzioni pretendono una naturale gerarchia istituzionale che dalla sovranità popolare va verso il Parlamento e non verso il governo.

Ora tocca scegliere da che parte stare: dalla parte della maestà di governo o da quella della centralità democratica parlamentare? I dubbi sarebbero leciti se da parte di chi propone il premierato si potesse riscontrare una qualche anche timida parvenza di buona fede nel voler dare un nuovo assetto istituzionale alla Repubblica.

Ma non è così. La nuova Italia in cui si eleggerebbe direttamente il premier di governo sarebbe un Paese in cui la politica non tratterebbe più con il piano economico e finanziario. Ma ne sarebbe subordinata aprioristicamente.

Sarebbe un’Italia in cui la volontà popolare, fintamente accresciuta dal compito di nominare in prima persona il primissimo ministro, a sua volta dipenderebbe esclusivamente dalla variabile del mercato e degli scambi borsistici. Quindi dall’economia di guerra, così come da quella della finta pace sociale che centro e destra vorrebbero.

All’Italia della forza istituzionale preferiamo l’Italia delle tante contraddizioni che la democrazia repubblicana e parlamentare si porta appresso. Alla presunzione della perfezione irraggiungibile, preferiamo l’imperfezione, la lacunosità e l’incertezza dell’equipollenza tra i poteri, del rapporto ininterrotto tra il popolo e quello che dovrebbe essere il suo Parlamento.

Nessun governo è veramente mai popolare fino in fondo, date le premesse del sistema che lo contiene. Ma un parlamento, invece, proprio perché è costituzionalmente ispirato alla dialettica degli opposti e delle differenze, può e deve avere questa peculiare valenza. Per questo, se la Repubblica ha ancora un senso, non può che essere parlamentare per essere veramente democratica.

MARCO SFERINI

11 maggio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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