Accordo a rischio fake democracy della piattaforma Rousseau

Crisi di governo. Supponiamo che l’accordo fosse raggiunto, e che sulla piattaforma prevalesse invece, con risicato margine, il no. Dovrebbe il Capo dello Stato sciogliere le camere per questo

Sarà un caso, ma quando a destra si teme una sconfitta si odono squilli di tromba. La ministra Locatelli ha chiamato il popolo all’insurrezione nel caso di un eventuale governo Pd-M5S. Da buon ministro dell’interno, Salvini ha prontamente detto che non organizza insurrezioni. Ma ha aggiunto subito dopo che se gli italiani volessero, sarebbero liberi di insorgere. I governatori leghisti scalpitano irrequieti. Anche Meloni si dice pronta a manifestare.

C’è un precedente autorevole. Il 19 dicembre 1994 Berlusconi, avvicinandosi la crisi del suo governo, si rivolse in Tv agli italiani sostenendo di essere l’unico possibile e legittimo Presidente del consiglio, in quanto investito dal consenso popolare espresso nel voto del 27 marzo dello stesso anno, e che dalla crisi si poteva uscire solo tornando alle urne. Quindi, chiamò i sostenitori a manifestare in segno di protesta. Seguirono aspre critiche, qualcuno parlò di eversione, ma l’appello cadde sostanzialmente nel vuoto. Le cronache del tempo riferiscono che a Milano partecipò alle manifestazioni non più di un centinaio di persone.

Non pensiamo che gli attori di oggi sappiano mobilitare le masse meglio del primo Berlusconi. Tra l’altro, potrebbero addurre il tradimento non degli elettori – che ovviamente non c’è – ma al più dei sondaggi. Altre cose preoccupano nella assurda crisi di agosto. Una parte dei 5Stelle è allergica all’intesa con il Pd. Tra i dubbiosi e i contrari le cronache indicano nomi di peso, da Casaleggio, a Bugani, a Di Battista. Pochi dubitano che lo stesso Di Maio abbia in realtà tifato, e in qualche misura operato, per un ritorno nelle braccia di Salvini, dal quale aveva ricevuto allettanti promesse. Le contorsioni M5S si sono condensate nella spinta a un voto sulla piattaforma Rousseau, ritenuto a rischio e dunque visto come la mossa ultima degli oppositori, dichiarati o occulti. Non sappiamo se in caso di accordo Pd-M5S il voto ci sarà o no, dati i tempi stretti imposti del calendario della crisi. Ma il fatto che il voto sia chiesto, consente già una riflessione.

Dimentichiamo per un momento le censure mosse contro la piattaforma, per le inadeguate garanzie di segretezza e libertà del voto.

Una preoccupazione rimane. M5S il 4 marzo 2018 è stato votato da circa undici milioni di italiani, e ha eletto oltre 300 deputati e senatori che li rappresentano. I gruppi parlamentari si sono riuniti, hanno discusso, si sono espressi in larga maggioranza per esplorare la possibilità di un accordo di governo, hanno definito una piattaforma, hanno conferito un mandato a trattare. La trattativa si è avviata, con prime indicazioni al Capo dello Stato, che ha definito di conseguenza il calendario delle consultazioni su due giorni.

La crisi si è aperta e si è svolta secondo un modello di democrazia rappresentativa in una forma di governo parlamentare. Non si può sovrapporre a questa realtà, cancellandola, il voto di qualche decina di migliaia di militanti. Supponiamo che l’accordo fosse raggiunto, e che sulla piattaforma prevalesse invece, magari con risicato margine, il no. Dovrebbe il Capo dello Stato sciogliere le camere per volere di Rousseau?

Non si facciano paragoni con la vicenda tedesca del voto Spd per la grande coalizione con la Merkel, che vide un partito strutturato affrontare una discussione e – quasi un mese dopo l’accordo – il voto di circa 450.000 iscritti. Qui invece siamo all’instant democracy che finisce con l’essere fatalmente una fake democracy.

E dunque preoccupa, per oggi e per il futuro, se il Movimento non riesce in una occasione cruciale a crescere da indistinto contenitore di proteste, cui bene si adatta il modello Rousseau, a soggetto politico di governo capace di muoversi nelle forme proprie della democrazia rappresentativa. Paradossalmente, è proprio la richiesta del voto Rousseau sulla crisi che dimostra la fragilità di una visione in cui la democrazia diretta non vuole correggere utilmente la democrazia rappresentativa, ma sostituirsi ad essa.

Vedremo quel che verrà nelle prossime ore. Nel frattempo, ci chiediamo che fare della libertà che Salvini ci ha concesso – in quanto popolo – di insorgere. Per il momento, tratterremo le masse. Ci basta il pensiero che, comunque vada, a breve riceverà lo sfratto esecutivo dal Viminale.

MASSIMO VILLONE

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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Politica e società

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