C’è qualcosa nella cronistoria recente, nel racconto dell’oggi e nella prospettiva dell’immediato domani che non puzzi di morte, di guerra, di atrocità, di sopraffazione, di prevaricazione, di abuso fisico, di potere, di sfruttamento delle risorse migliori per i fini più privati e per una depredazione di ogni vera ricchezza sociale, civile, morale e naturale che ci circondi e che provi, così tanto inutilmente, a compenentrarci?
Va bene, andiamoci pure piano col pessimismo cosmico in chiave moderna, ma si dovrà ammettere che, da qualunque parte ci si giri e in qualunque pagina di giornale si finisca, non si trovano le cosiddette “buone notizie“; semplicemente perché di buono in questi tempi c’è davvero poco.
E quel che c’è, e c’è indubbiamente, finisce per essere soverchiato da una caterva di intrecci tra poteri economici, finanziari, politici e tra relazioni internazionali che oscurano quella voglia di rinnovamento che, nonostante tutto, resiste.
Facciamo alcuni esempi. Il governo italiano sta decretando la costituzione di nuovi centri di permanenza per il rimpatrio dei migranti: uno in ogni regione, ricavati in spazi isolati dai centri abitati, facilmente recintabili, lontani dagli sguardi e dalle vite quotidiane di ognuno di noi.
Materialmente, questi erigendi spazi di lagerizzazione delle esistente di gente privata di tutto, dalla dignità alla libertà (che poi, in fondo, sono un po’ la stessa cosa…), saranno per la loro edificazione affidati al Ministero della Difesa e per la gestione pratica al Ministero dell’Interno. Qualcuno nella maggioranza di governo, e nell’esecutivo stesso, non esclude di piazzarli pure su degli isolotti remoti della nostra bella Italia.
Il decreto contiene altresì il prolungamento da tre a diciotto mesi della permanenza nei centri e, in una formulazione tutta in divenire, di una nuova teorizzazione dell’elemento securitario associato a quello del controllo su ciò che altera gli equilibri sociali della popolazione (e del potere), risulta ancora difficile capire se le misure di reclusione riguarderanno anche i richiedenti asilo.
Se così dovesse essere si andrebbero a violare tutta una serie di norme costituzionali e di trattati internazionali di cui, a dire il vero, le destre si sono sempre poco curate. Ma se così sarà, appare abbastanza chiaro che il governo stia davvero militarizzando la questione delle migrazioni nel nostro Paese e ne stia facendo esclusivamente un problema di repressione e di rimpatrio forzoso.
Oltre tutto i canali necessari per arrivare ad una, molto eufemisticamente parlando, “felice” soluzione di tanti casi di ricollocamento dei migranti nei loro paesi di origine, non sono affatto definiti, alcuni nemmeno lontanamente aperti.
Anche a non voler essere minimamente maliziosi, ma semplicemente critici verso l’impostazione complessiva che l’esecutivo di Giorgia Meloni vuole dare al fenomeno intercontinentale degli spostamenti di centinaia di migliaia di persone verso l’Europa e, nello specifico, verso l’Italia, non si può non notare qualche verosimiglianza in relazione a paragoni che si possono fare con un nemmeno troppo lontano passato.
I nuovi CPR sembrano più che campi di accoglienza per il rimpatrio, dei veri e propri centri di detenzione a lungo termine, posti laddove nessuno vede ancora meno di quanto già oggi si poteva scrutare per essere edotti delle sofferenze cui sono sottoposti i migranti: le condizioni di reclusione, per quanto “leggère” ed “umane” possano dirsi ed essere, sono fonte di uno stress psicofisico che si aggiunge ai tanti travagli patiti prima, durante e dopo le partenze e gli arrivi.
Suicidi, abusi, somministrazioni indiscriminate di farmaci antipsicotici per calmare apparentemente le situazioni di disagio più conclamate e ripetute nel tempo, sono solo alcune delle violazioni di diritti umani cui qualcuno un giorno dovrà rispondere.
Non fosse altro davanti ad una coscienza civile collettiva che, almeno oggi, sembra in larga parte indirizzata, dalla crescente crisi sociale che riduce alla miseria milioni di italiani e dalla propaganda xenofoba delle destre, al sostegno nei confronti delle misure repressive del melon-salvinismo.
E, se è anche vero che i sondaggi danno la fiducia della popolazione nei confronti di Palazzo Chigi in continua, progressiva discesa, è altrettanto vero che la maggioranza mantiene, in assenza di un coordinamento efficace di tutte le opposizioni parlamentari e di quelle anche extraparlamentari, un controllo pieno dell’azione tanto di formazione delle leggi quanto di esecuzione e di imposizione, addirittura contro il parare degli enti locali regionali, di piani come quello dell’edificazione dei nuovi CPR.
Mentre la guerra viene discussa all’ONU da parti nettamente opposte e si cerca di ridimensionare il ruolo della Russia in seno al Consiglio di Sicurezza, proponendo addirittura la sua esclusione dal consesso degli Stati vincitori nella Seconda guerra mondiale che, tutt’oggi, mantengono il diritto di veto (ed un certo equilibrio tra est, ovest, tra Europa, Americhe, Asia…), la nostra Presidente del Consiglio mette avanti a tutto proprio la questione delle migrazioni.
Ripete che vanno gestite altrimenti, che l’Italia non diverrà il campo profughi dell’Europa.
Un concetto che si staglia nelle menti di una opinione pubblica come un flash accecante: l’immagine, del resto è volutamente forte, impattante. Pensate alla nostra penisola ridotta come sono ridotti oggi i CPR. Luoghi dove le persone sono stipate, ammassate, ridotte a dormire le une sopra le altre, senza un soluzione di continuità tra corpo e corpo: ridotte a stare in piedi a causa dei nuovi arrivi.
E’ ovvio che, scene come quelle viste e riviste in televisione e su Internet, lascino pochi dubbi a chiunque sulla necessità di un adeguamento delle attuali strutture di accoglienza.
Ma il fatto che siano organizzate dalla Difesa, con un tratto quasi ideologico dietro che ripropone addirittura una specie di isolazionistico “confino” sugli isolotti del Bel Paese o, comunque, in zone lontane dagli occhi e dal cuore, dove la gestione di queste esistenze può avvenire senza che si faccia troppo clamore o che qualche giornalista impiccione voglia interessarsene, lancia un cono d’ombra ampio e profondo tanto sul modus operandi quanto, nel concreto, sulla concezione che si ha del rapporto tra istituzioni e migranti, tra italiani e migranti.
Fa un certo effetto pensare che nel 2023 in Italia possano esistere dei luoghi recintati anche con filo spinato, in cui vi siano centinaia e centinaia di persone richiuse per il fatto di essere dei migranti e, vista la grande quantità di spostamenti, di rappresentare – oggettivamente – una emergenza.
Se il governo ha tutte le responsabilità di una gestione securitaria, repressiva e militarista, non si può non ammettere che l’Europa stia facendo di tutto per incentivare queste finte soluzioni di un problema che non può essere di paese soltanto. Proprio perché è qualcosa di veramente globale e che, quindi, riguarda qualcosa di più del ristretto concetto e dell’ancora più ristretto spazio dei singoli Stati nazionali otto-novecentescamente intesi.
Le similitudini con le torsioni autoritarie del secolo scorso corrono repentine alla mente. Troppe iniziano ad essere le contingenze che possono ingenerare una concomitanza di altri fattori che, pure nel rinnovato contesto di una modernizzazione che parrebbe scongiurare nuovi ritorni di fiamma dell’intolleranza istituzionalizzata verso minoranze di ogni tipo, rischiano di approdare ad un punto di non ritorno per le democrazie propriamente o impropriamente dette.
Non si tratta di paventare degli scenari olocaustici o di segregazionismo razziale. Ma i germi della precostituzione di certe quinte di uno spettacolo tragico già visto, in cui venga sempre meno la tutela delle garanzie fondamentali per ogni persona, iniziano a scorgersi. Oggi nei vecchi e nuovi CPR sono rinchiusi i migranti, come pericolo per una società che è minacciata anzitutto da una crisi economico-sociale che ha dei connotati di esponenzialità veramente inquietanti.
Masse di salariati e di pensionati possono sempre fare meno conto sul loro potere di acquisto, con davanti un’inflazione crescente, che colpisce i beni di prima necessità, ed a cui il governo non fa fronte se non con delle prebende in forma di bonus o di carte che vanno a sostituire quell’imperfetto reddito di cittadinanza che era la vera, unica misura di contenimento di una povertà davvero incedente su vasta scala.
Il tema delle migrazioni si inserisce, quindi, in un contesto di povertà diffusa, di pauperismo di ritorno, di restringimento dei finanziamenti pubblici per i settori nevralgici di uno stato-sociale ormai praticamente inesistente. Nel mentre si danno soldi al comparto militare, non si aumenta la spesa sanitaria e si pensa ad una Italia arlecchinizzata, divisa tra regioni virtuose e regioni colpevoli della loro indigenza storica, arrivata fino ed oltre le soglie del nuovo millennio.
Guerra, crisi climatica, crisi sociale, aumento del divario tra i nord e i sud del mondo, sovversivismo delle classi dirigenti, lotta tra poveri, lotta tra popoli. Ce n’è abbastanza per essere quanto meno inquieti e preoccupati per i decreti che il governo si appresta a varare oggi nei confronti dei migranti e magari domani contro qualche altra forma di “disagio” o di “problema” classificato come tale entro i margini di una società plasmata da un analfabetismo di ritorno in materia di diritti sociali, civili e umani.
Reagire a questa deriva repressiva, esclusivista e dai tratti evidenti di una manifesta sopportazione dei rapporti tra etnie differenti, ma in realtà desiderosa di mettere mano ad una regolamentazione che ripristini il primato dell’italianità su tutto e tutti, vuole dire anzitutto mettere al centro di una agenda delle opposizioni l’unità sui diritti fondamentali.
Partendo da quello alla libertà di movimento, tanto quanto lo sono le merci. E’ ovvio che che le regole vanno poste prima di tutto a garanzia dei migranti. Ma garantirli non dietro al filo spinato o lontano da quelle che pensiamo siano le nostre vite tutelate da un governo che, in realtà, garantisce solo i privilegi dei più ricchi, del padronato e della grande finanza. Garantirli e proteggerli da ulteriori sofferenze, da qualunque espressione il potere possa assumere come forma e sostanza di coercizione.
L’Europa ha una responsabilità davvero grande nell’abbandonare l’Italia nelle mani di un governo conservatore e repressivo proprio quando vi sarebbe bisogno dello spirito di Ventotene, del comunitarismo, di qualcosa che non parla soltanto il linguaggio della burocratizzazione che si è divorata l’idea di unità tra i paesi del Vecchio Continente; ma che si rivolge agli Stati ricordando, e insieme praticando, una cultura dell’accoglienza e dell’integrazione che, comunque la si veda, non si riferisce a numeri che stravolgono le società che abbiamo ereditato dal passato.
Le modificano, le cambiano, ma non hanno quel potere di rivolgimento a centottanta gradi che si immagina possano detenere quando si sente parlare di “invasione“, di “sostituzione etnica” o di “campo profughi” dell’Europa.
L’impatto è forte, certo, perché la migrazione è istillata da quei governi che vogliono da Bruxelles i soldi promessi nei bilaterali, nei memorandum in cui si danno quattrini in cambio della deportazione di esseri umani ai confini con l’imperscrutabile linea desertica del Sahel. Non possiamo fare finta che tutto questo ci riguardi fino ad un certo punto. Non possiamo pensare che le migrazioni siano solo un fenomeno passeggero. Sono un sintomo di una destabilizzazione globale che va corretta in senso umano (e non solo).
L’Italia ha bisogno di un intervento europeo che non dia altri pretesti alle destre di governo per inasprire le pene, per aumentare i recinti e le barriere. Ha bisogno che tutto questo venga disincentivato. Ne va della nostra democrazia, del nostro rapporto con una Unione che rischia, se si fa cieca e sorda nei confronti di una soluzione condivisa, di sbilanciarsi pericolosamente sul piano di un sovranismo che, in fin dei conti, non disdegna affatto di negarla da qui al prossimo futuro.
Nel nome di tante, nuova e vecchie, piccole patrie di egoismo, preservazione delle identità come qualità esclusive dell’essere umano, del cittadino, della persona. Un ritorno al passato che non vuole passare. Un ritorno ad uno schema già visto e che sarebbe bene, grazie alla lezione della Storia, questa volta prevenire, scongiurare e archiviare una volta per tutte.
MARCO SFERINI
21 settembre 2023
foto: screenshot tv