Non è vero che il governo Meloni non ha una “idea” di Paese e del Paese stesso, hic et nunc. Non si tratta soltanto di fare riferimento al vecchio armamentario fascista e post-fascista che arde sul braciere della fiamma tricolore e che si porta appresso revanchismi conservatori, revisionismi storici e tentativi repressivi spacciati per garanzia dei diritti civili, sociali e dell’ordine pubblico in generale.
Si tratta, anzitutto, di una politica economica e del lavoro che, se già era abbastanza evidente dai prodromi della legge di bilancio arrivata all’ultimissimo momento all’approvazione delle Camere, adesso diventa manifestamente inequivocabile.
La ripartizione dei fondi del PNRR si preannuncia diseguale, canalizzata fondamentalmente verso il sostegno alla grande industria esportatrice, a piani di qualificazioni di grandi opere che, proprio come si evince dagli ultimi atti approvati dall’esecutivo, tagliano fuori la grande parte dell’edilizia di medio e piccolo intervento.
Il decreto sulla cessione dei crediti per i bonus edili e la rimodulazione del nuovo Codice degli appalti sono, da questo punto di vista, la prova del nove di una inadeguatezza antisociale del governo. Non la scopriamo certamente oggi, ma ne abbiamo una conferma evidente, ininterpretabile e che, oltre modo, ci dice pure dell’approssimazione con cui Giorgia Meloni e i suoi ministri stanno conducendo il lavoro di gestione del Paese.
Quando Maurizio Landini lamenta l’esclusione delle parti sociali da una discussione allargata sulle grandi problematiche che riguardano tanto le imprese quanto il mondo del lavoro, non denuncia solamente una svista di Palazzo Chigi, un inciampo scortese e anti-istitituzionale: denuncia ormai una prassi consolidata.
Nemmeno Mario Draghi era, da economista e banchiere scafato, arrivato a tanto. La condivisione delle scelte era, ovviamente, subordinata alla legittima autonoma decisionalità governativa ma, quanto meno, un formale ascolto delle ragioni delle organizzazioni dei lavoratori era ottemperato e praticato.
Il governo Meloni invece non si premura nemmeno di salvaguardare la mera forma, il minimo dei rapporti con le associazioni di categoria e, dopo aver impattato contro il muro delle critiche unanimi levatesi dai costruttori, dai lavoratori e dai cittadini che potevano usufruire del superbonus per mettere in essere una ristrutturazione delle abitazioni che andasse pure nella direzione di un miglioramento qualitativo della vita generalmente intesa (ad esempio riguardo agli eventi sismici…), corre ai ripari tardivamente con calendarizzazioni di incontri per “spiegare” la logicità dei provvedimenti.
Ancora una volta la destra interviene su quel poco di misure sociali che il governo Conte II aveva tirato fuori dal suo cilindro interclassista, provando a restituire un poco di ossigeno anche a chi aveva il bisogno impellente di rimodulare i propri poveri conti in tasca dopo la pandemia e con l’avvento della guerra imperialista in Ucraina.
Ancora una volta il governo di Meloni opera una forzatura evidente, si mette contro una intera categoria produttiva e marcia caterpillerscamente contro un segmento di mondo del lavoro che era in espansione, nonostante tutte le critiche possibili e giuste all’utilizzo dei superbonus, alle tante truffe che lo hanno segnato e che, tuttavia, non ne inficiavano la natura di intervento anche sociale.
Adesso, seguendo la logica liberista e corporativa del governo, chi si potrà permettere di finanziare la ristrutturazione della propria abitazione saranno solo coloro che potranno fare direttamente fronte alle spese: quindi, in poche parole, chi vive in agiatezza, chi non ha un mutuo come spada di Damocle sulla propria testa, chi non ha alcuna preoccupazione di sbarco del lunario a fine mese.
L’allarmante previsione di Confedilizia e Confartigianato sulla conseguente decurtazione di un centinaio di migliaia di posti di lavoro fa il paio con l’impatto anche ambientale delle misure prospettate dall’esecutivo: se davvero la destra avesse a cuore un briciolo di transizione ecologica, allora incentiverebbe le ristrutturazioni edilizie che mirino ad una condizione delle abitazioni sempre meno energivora.
Invece si va esattamente nella direzione opposta. Dal carbone delle centrali alle grandi opere: ponte sullo Stretto di Messina, TAV, trivellazioni, inceneritori. Ogni promessa elettorale si infrange su un realismo opportunistico, su una chiara e precisa linea di condotta che subordina l’ambiente e l’ecologia ai dettami del mercato e alle fluttuazioni degli interessi finanziari che vanno oltre i confini nazionali.
Conservatorismo, liberismo e finto nazionalismo patriotticheggiante, unitamente ad un altrettanto ipocrita viatico sociale e ambientale, sono la piattaforma illusoria dell’opportunità rappresentata dalla presunta – certamente presuntuosa – “novità” delle destre meloniane: responsabilità popolare nella delega attraverso il voto, certo, ma anche ovvio blandimento elettorale che appare per quello che è a pochi mesi dal 25 settembre scorso.
Le proteste più energiche, come ovvio, oltre che dai settori imprenditoriali e del lavoro, sul terreno politico provengono dal M5S che fece del superbonus una delle chiavi di volta di una specie di imprecisabile progressismo mescolato nella macedonia centrista tra PD e Italia Viva, insieme al reddito di cittadinanza.
Quel flebile riaversi di uno stato-sociale esangue, e ormai relegato più che altro all’immaginario collettivo di un tempo, è stato immediatamente fatto retrocedere dal tecnicismo draghiano e dalla sua continuazione in salsa neoconservatrice rappresentata dalla “melonomics“. Segno che non c’è spazio alcuno di trattativa con una rappresentanza dei poteri economici e finanziari europei in particolare quando un insieme di forze politiche deve darsi una credibilità che sia spendibile, oltre che sui mercati, anche nei confronti dei rapporti interstatali e intergovernativi.
La prima conseguenza di tutto ciò è l’aggiunta di un mattoncino liberista al muro che preserva i profitti e le grandi ricchezze, mentre affida ad uno sviluppo altamente diseguale le particolarità locali tanto economiche quanto sociali, spingendo verso una autonomia differenziata che è autonomia del privilegio per le regioni ricche e autonomia dell’indigenza per quelle povere.
Il sistema Paese rischia veramente di attraversare nei prossimi mesi una crisi strutturale mai vista prima: la congiuntura stabilita dal governo tra controriforme istituzionali e intervento economico antilavorativo, di chiarissima impronta classista, non ci farà apprezzare dalla versione “buona” del capitalismo continentale.
Dopo il caso delle accise, l’intervento sul superbonus e sul Codice degli appalti rischia di far fibrillare nuovamente la maggioranza e, nonostante il risultato delle urne regionali sia stato poverissimo in quanto a partecipazione e abbastanza ricco di risultati per la compagine di governo, avrà come effetto un nuovo allontanamento dei cittadini dalla politica impropriamente detta e fatta nell’azione meloniana.
Erosione democratica, aumento delle diseguaglianze e attività governativa tutta improntata alla tutela dei ceti abbientissimi, saranno in trittico divisivo e accidioso per una popolazione già ampiamente disillusa e lasciata a sopravvivere in un pauperismo rigenerato dalle crisi internazionali e dall’impossibilità di vedere la fine di un conflitto globale che vede la Cina emergere prepotentemente sul piano economico e finanziario.
La piccolezza politica dell’Italia di Giorgia Meloni sta tutta nei numeri di una classe dirigente altrettanto minuscola. Corto sguardo sulle opportunità di oggi e abbandono del Paese al suo infelice destino di nuove privatizzazioni e di sempre meno tutele per lavoratrici e lavoratori.
MARCO SFERINI
18 febbraio 2023
Foto di Nishant Aneja da Pexels