Agadez nel Niger come Lampedusa in Italia. Miraggio di salvezza e speranza per migliaia di migranti che sfuggono a guerre, carestie, fame, disperazione e a ogni sorta di violenza e abuso per ritrovarsi invece cadaveri tra le sabbie del Sahara o nelle acque del Mediterraneo, o vittime delle miopi politiche europee che contribuiscono – direttamente o indirettamente – a incentivare canali di immigrazione clandestina anziché istituirne di legali.
Lunedì scorso il consiglio regionale di Agadez ha lanciato l’allarme alla comunità internazionale e al governo del Niger sul dramma continuo di migranti che a dozzine vengono trovati morti nel deserto del Sahara, abbandonati dai passeur lungo il viaggio sulla nota rotta del Mediterraneo centrale che da Agadez porta verso la Libia e le coste europee, soprattutto italiane.
Il deserto di Ténéré nel Sahara centromeridionale sta diventando un vero e proprio «cimitero a cielo aperto», soprattutto da quando, nel 2015 e 2016, il governo di Niamey ha introdotto una legge e adottato misure repressive contro chi trasporta migranti da Agadez verso i confini del Niger.
Provvedimenti che hanno portato i passeur ad abbandonare le vie tradizionali di attraversamento del deserto e tentarne di nuove, più pericolose.
Ad Agadez «la migrazione è sempre stata la principale attività economica da quando il turismo si è fermato. Ed è sempre stata considerata un’attività lecita».
Senza alcun tipo di supporto economico, l’attività dei passeur non può essere arrestata e con la legge contro i trafficanti bisognerebbe adottare misure compensatrici a sostegno dell’economia locale, spiega Mohamed Anako, presidente del consiglio regionale.
D’altro canto, Amnesty International nel rapporto «Una tempesta perfetta, il fallimento delle politiche europee nel Mediterraneo centrale» denuncia come tre migranti su cento muoiono durante la traversata del Mediterraneo.
E che se dal 2015 ad oggi si è registrato l’incremento di morti più alto, il 2017 si stima sarà l’anno record di vittime in mare.
L’instabilità interna e nei paesi limitrofi (Nigeria, Libia e Mali) dove sono attivi gruppi terroristici come Boko Haram, Al-Sharia, Aqim e Mujao; siccità periodiche e alluvioni; l’istituzione di una zona di libera circolazione di merci e persone dagli Stati dell’Ecowas (Comunità Economica degli Stati dell’Africa occidentale) sono fattori che fanno del Niger tanto un paese di origine quanto di transito e destinazione.
La caduta del regime di Gheddafi nel 2011 ha aperto le porte (dell’inferno) ai flussi migratori. Ma il dramma dei migranti ha radici più antiche, l’altra faccia delle politiche dei paesi europei che reiterano secolari piani di sfruttamento delle risorse africane e corruzione dei governi locali a svantaggio delle comunità.
Il Niger è il quarto produttore mondiale di uranio e per contrasto uno dei paesi più poveri al mondo; al 187 esimo posto nell’Indice di Sviluppo Umano 2016 (187/188 Undp Hdi 2016). Circa il 40% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e due milioni di persone necessitano di assistenza alimentare.
L’uranio non ha certo arricchito la popolazione del Niger ma ha fatto di Areva – per l’87% di proprietà dello Stato francese – uno dei maggiori colossi di energia atomica e della Francia (che dipende dal nucleare per tre quarti della sua elettricità) il migliore alleato militare nella lotta a Boko Haram.
Ci sono voluti due anni di negoziati difficilissimi affinché, nel 2014, Areva rinegoziasse un accordo con il governo di Niamey che impone al colosso francese di pagare il 12% di royalties contro il 5,5 precedente e che dovrebbe portare nelle casse del Niger circa 40 milioni di dollari annui: briciole.
In cambio, il prezzo pagato dalle comunità locali e dall’ambiente è incommensurabile. Il livello di radioattività nell’acqua (distribuita alla popolazione) intorno alle cittadine di Arlit e Akokan, a pochi km dalle miniere di Areva, supera i limiti ammessi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
RITA PLANTERA
foto tratta da Pixabay