La preoccupazione prima del grillismo delle origini era mettere da parte la “casta” che aveva causato la rovina del Paese: più che altro una rovina morale da cui, sembrava, fosse derivata conseguentemente una discesa agli inferi per l’economia pubblica, per il benessere comune, per la tutela di tutte quelle forme di garanzia che permettevano un tempo ai più deboli ed indigenti di sopravvivere nonostante tutto.
E’ sempre sembrato così: in sostanza che il Movimento 5 Stelle, che viaggiava sull’onda delle visioni ultramoderne di una democrazia distopica, di un Matrix della politica italiana in cui il Parlamento pareva dovesse essere trascurabile rispetto alla partecipazione diretta tramite la piattaforma Rousseau, fosse la punta estrema di una avveniristica interpretazione del ruolo del cittadino in un Paese libero dalla corruttela, dall’interesse privato in atti pubblici, dalle contumelie riservate dai politici a chi osava innalzare la bandiera sbeffeggiata e irrisa dell'”onestà“.
I pentastellati dei meet-up e della grande onda generatrice del M5S, a loro modo, erano dei rivoluzionari, dei sovvertitori dell’ordine costituito. Ma solo di quello statale, istituzionale e politico nel senso più stretto del termine.
Il successivo gradino da salire, quello della messa in discussione della struttura economica, che istruisce e condiziona ogni momento della nostra vita, veniva affrontato come un collateralismo, come un dato di fatto che, tutt’al più, poteva essere corretto con un riformismo farcito di ambientalismo, civismo e con una stigmatizzazione degli eccessi del liberismo.
E’ piuttosto interessante, ora che i Cinquestelle hanno cambiato (quasi) completamente indirizzo politico e, soprattutto, si sono (quasi) del tutto separati dalla rigidità delle regole e delle imposizioni anti-ideologiche a fondamento della loro nascita e della loro specificità rispetto a tutte le altre forze politiche, indagare sulla loro fisionomia non esplicitamente confessata (forse perché nemmeno negli intenti dei suoi fondatori era ben chiaro cosa dovesse essere fino in fondo).
In sostanza, si è trattato di un movimento progressista fin dalle origini o di un tentativo di conservazione dell’esistente mascherato da rivoluzione anti-casta e anti-sistema? Probabile che la risposta più corretta stia nel mezzo, perché il trasversalismo politico del M5S è divenuto sufficientemente chiaro dalle prime apparizioni sulla scena delle elezioni. Soprattutto quelle nazionali.
Non avendo mai messo in discussione il regime liberista, si poteva pensare dieci e più anni fa, così come ora, che i pentastellati, in fondo, fossero a favore di una riforma dello Stato in senso rafforzativo e che tutto questo andasse a vantaggio proprio della conservazione del liberismo. Anche di quello più spinto.
Se così fosse, pur trovandosi nella contraddizione di voler eliminare il grande apparato burocratico-finanziario della “casta” corrotta, i grillini avrebbero rappresentato una proposta politica neo-conservatrice nel momento in cui non si proponevano di superare il sistema capitalistico, bensì di adattare il rafforzamento dello Stato di nuovo modello proprio a quell’economia che rimane la causa di tanti disagi, di tutte le diseguaglianze.
D’altro canto, non è però nemmeno possibile circoscrivere la curiosa anomalia populista pentastellata in un contesto simile a quello delle forze politiche americane o europee che hanno fatto del potere statale non un mezzo al servizio della cittadinanza, una leva di forza del pubblico rispetto al privato. Le differenze tra il macronismo e i Cinquestelle sono del tutto evidenti, tanto che, anni e anni fa, Di Maio e Di Battista andarono in Francia a plaudire i Gilets jaunes che in Italia erano considerati alla stregua di teppa terrorista.
La verità, si diceva, sta nel mezzo. Forse sta addirittura nel mezzo del mezzo, perché la galassia grillina è stata attraversata da così tante tendenze e culture politiche che ha finito col far convivere estrema destra ed estrema sinistra, passando per tutti i centri del centro.
Una particolarità tutta italiana, similmente al PD: l’una per l’indistinguibilità ideologica, l’altra per la fusione a freddo di due grandi filoni della cultura politica del Bel Paese che hanno attraversato tutto il Novecento, ossia cattolicesimo e socialismo democratico.
Ed oggi, dopo la crisi del governo Draghi e la sua caduta, la domanda sulla missione iniziale dei Cinquestelle rimane: si trattava di vera rivoluzione sovrastrutturale oppure era già in allora un tentativo di adattamento di un nuovo Stato all’economia liberista che avanzava con prepotenza in ogni settore della vita pubblica? Nemmeno il nuovo corso di Giuseppe Conte, per lo meno quello degli ultimi mesi, riesce a sciogliere completamente questo interrogativo, perché, se è vero che rimane ben poco del Movimento 5 Stelle primordiale, non è mai per davvero emersa una volontà anticapialista, una critica antiliberista.
Il massimo in cui si è potuto sperare è l’autodichiarazione di attribuzione della patente di “veri progressisti“, più che altro per distinguersi dal PD che, oggettivamente, sta confermando, con l’aggregazione del centro iper-europeista, iper-atlantista e dedito solo alla difesa delle ragioni del mercato, di essere l’interprete di quella anonima “Agenda Draghi” che sembra piuttosto un comodo espediente di esclusività rispetto ad un vero programma politico…
A ben vedere il neo-conservatorismo può pure essere stato un tratto distintivo dei pentastellati, ma di sicuro ha albergato molto più comodamente altrove.
Senza magari rendersene conto (concediamo un po’ di buona fede, ogni tanto…), anche i democratici stessi sono stati, portando avanti una rafforzamento del potere esecutivo con tentativi di controriforme che amputavano il Parlamento, che lo rendevano monco di una Camera e che disponevano quindi nel governo il punto di riferimento per un salto del regime repubblicano in un semi-presidenzialismo accarezzato anche da Draghi al momento dell’avvicendamento al Quirinale.
E’ molto difficile poter identificare con assoluta complementarità un piano ideale della politica di partito con un piano più strettamente pratico e pragmatico: le interpretazioni culturali ed anche ideologiche della società non fanno spesso il paio con le traduzioni politiche negli interventi governativi. Nemmeno con quelli di un ex banchiere internazionale come Mario Draghi: la dialettica dell’interesse particolare finisce col prevalere sull’interesse universale e, per mettere un po’ d’ordine e stabilire nuove priorità, servirebbe altro che la “Critica del giudizio” kantiana…
Mentre si va velocemente verso la presentazione delle liste e verso una assurda campagna elettorale estiva, la difficoltà dello scioglimento dei nodi programmatrici ci mostra tutta l’insipienza di una politica italiana protesa soltanto all’affermazione delle forze numericamente più grandi, mettendo da parte ogni principio o punto etico che si richiami all’eguaglianza costituzionale in materia di diritti e rappresentanza in seno al Parlamento.
La democrazia viene messa in fondo, dietro le quinte, per far spazio alla grande rappresentazione delle promesse impossibili, dell’interpretazione da parte di (quasi) tutti dell’eccellenza in materia di fiducia e fedeltà ai princìpi, ai valori e alle istanze dei singoli territori. Vince la spudoratezza, la grondante protervia di chi a tratti è progressista e, sempre a tratti, è conservatore. Neo e moderno quanto si vuole, ma, alla fine anche di questa fiera, non può che finire con l’esserlo…
MARCO SFERINI
30 luglio 2022
Foto di Francesco Ungaro