Se sento il nome di Samuel Paty penso alla scuola, penso a quei ragazzi francesi che studiavano con lui e che imparavano, a poco a poco, a vivere laicamente, oltre ogni intolleranza, oltre ogni discriminazione, oltre ogni violenza dettata da un credo di qualunque tipo. Io non sento il nome di Samuel Paty quando lo ascolto, non lo leggo quando lo vedo scritto sui giornali: al suo posto io sento e leggo parole che sono tutti suoi sinonimi. Laicità, sapere, conoscenza, scuola, studio, cittadinanza, rispetto, critica, satira.
Questo è importante: fare in modo che il ricordo di un professore, morto nemmeno a metà della sua probabile lunga vita, barbaramente e vigliaccamente ucciso da più mani che si sono racciuse nel pugno che ha stretto un coltello intriso di odio, si esprima attraverso la sempre più piena consapevolezza dell’importanza di allontanarsi da ogni tentazione al disprezzo dell’altro rispetto a noi perché diverso.
Diverso nel suo credere, nel pensare, nell’esprimersi, nel mangiare, nel vestirsi, nell’ascoltare musica o nel leggere un libro. In sostanza, la diversità del vivere quotidiano che è espressione prima della complicata risultanza di una comunità che non può essere uniforme e univoca: non può e non deve parlare la stessa lingua, omologarsi ad un solo credo, ad un solo stile, ad una etica laica o religiosa che obbedisca ad un principio extra-ordinario.
Perché gli assoluti sono sempre negativi e non servono a convincere, a far aderire a nessuna causa chi vuole invece ragionare con parametri che gli provengono da istinti inspiegabili, da intuizioni non risolvibili in semplici parole: magari con una vignetta fatta di doppi o tripli sensi. L’immagine, il disegno, la caricatura può essere irriverente, può sottintendere, può adulare e può criticare, può avvicinare o respingere. Ma è cultura di per sé. Lo è perché muove le menti, le stimola e le sospinge, le costringe – ma senza forzarle – a considerare più punti di vista.
Samuel Paty è salito su una cattedra anche lui, magari senza saperlo, per mostrare ai suoi ragazzi e alle sue ragazze che il mondo lo si può e lo si deve guardare, come faceva Robin Williams ne “L’attimo fuggente“, da molteplici angolazioni e che è sempre diverso e nessuno mai potrà fermare il nostro sguardo solo e soltanto in un verso.
Quel pugno che ha stretto il coltello non ha fermato la voglia di girare la testa, non ha spento la curiosità bendettamente laica di guardare dietro sé stessi, vicino a sé stessi per sapere almeno che il mondo non finisce dove finiamo noi. Ma proprio lì, sul confine della nostra pelle col vuoto che le sta intorno, comincia.
(m.s.)