A partire dalla sanità, tutto sia pubblico e non più privato

L’importanza della riconversione sociale di una economia spinta all’eccesso dell’accumulazione dei profitti dal liberismo dovrà diventare il tema costituente e ri-costituente per la sinistra anticapitalista e comunista che sopravviverà...

L’importanza della riconversione sociale di una economia spinta all’eccesso dell’accumulazione dei profitti dal liberismo dovrà diventare il tema costituente e ri-costituente per la sinistra anticapitalista e comunista che sopravviverà alla diaspora di questi decenni appena trascorsi e alla pandemia da Coronovirus in cui siamo attualmente immersi.

Sarebbe fin troppo facile rivendicare la primogenitura di tante lotte segnate da slogan che hanno sempre chiesto che nulla si privatizzasse ma che, anzi, si potenziasse la struttura pubblica degli assi strategici proprio dell’economia dello Stato e che la Repubblica mettesse tutto il suo impegno nel rispettare il proprio ruolo traducendo in atti concreti i dettami della Costituzione e impedendo che l’economia penetrasse così a fondo nella gestione del sociale, nella tutela dei diritti fondamentali del cittadino e delle classi sfruttate e più deboli del Paese.

Sarebbe facile perché, come comunisti, siamo stati dipinti come civette, gufi, portatori di sventura quando affermavamo che dalle infrastrutture ferroviarie, stradali fino al sistema pensionistico e a quello sanitario, dalla scuola alle poste e telecomunicazioni, dai beni ambientali ai beni comuni come la rete idrica, tutto rimanesse pubblico per il semplice, forse banale, ma più che giustificato motivo che risponde al nome di “interesse“.

E’ ormai nel campo dell’evidenza incontestabile, anche per i fautori del liberalismo prima e del liberismo poi, che il privato persegue il proprio interesse e, quindi, nel caso della sanità regionalizzata (altro errore enorme, a cui a suo tempo ci opponemmo perentoriamente: la riforma del Titolo V della Costituzione che creare lo squilibrio tra poteri cui assistiamo oggi…), acquisisce solamente i settori che sono più redditizi e lascia nelle mani pubbliche l’organizzazione di ciò che costa di più e rende meno.

Purtroppo si trattava e si tratta proprio di quei reparti di terapia intensiva che, se ampliati nei decenni passati avrebbero permesso di salvare quelle vite umane che invece sono state abbandonate a causa proprio dello spacchettamento del sistema sanitario regionale tanto lombardo quanto veneto. Un sistema piegato alla logica non del cittadino da assistere ma del “cliente” da accaparrarsi nel “quasi mercato” che avrebbe garantito (sentite che belle parole) “la scelta del cittadino“.

La scelta non è sempre sinonimo di libertà nel capitalismo. Perché la scelta è alla mercé della condizione sociale in cui si trova a vivere. Si può scegliere liberamente solo se si hanno le risorse per determinare questo tipo di libertà. Che non è libertà sociale e nemmeno individuale. E’ “libertà di classe“. Quindi è una falsa forma di libertà, non universale, non è un diritto ma soltanto la maschera del “privilegio“.

Grandi testate giornalistiche liberalmente progressiste, folgorate su una nuova via di Damasco dopo anni di santificazione delle privatizzazioni come base di espansione economica, produttiva e sociale, fanno a gara a pubblicare articoli dove incensano due elementi che dovrebbero andare di pari passo: il ritorno alla centralità dello Stato nelle materie che risultano primarie per la tutela dell’integrità di ogni singolo cittadino (salute in primis) e investimenti definiti “enormi” sulla prevenzione, in questo caso sanitaria e salutista.

Secondo le più recenti stime, aggiornate dopo un mese e mezzo di “serrata generale” (scusate, ma gli inglesismi mi disturbano e quindi il termine “lockdown” lo lascio agli amanti del corteggiamento neologistico estero, perché fa “più figo” e “moderno“. Proprio come le privatizzazioni tanto volute da una certa sinistra, da un centrosinistra ormai morto e sepolto), il taglio dei posti letto nelle terapie intensive, frutto di una riconversione sanitaria arlecchinizzata regionalmente, è stata la risposta più inadeguata all’emergenza epidemica prima e pandemica immediatamente dopo.

Già sul finire dell’autunno dello scorso anno si segnalavano forti preoccupazioni in merito tanto al rischio di una epidemia su vasta scala quanto alla catena di comando e alla relativa comunicazione istituzionale che avrebbe dovuto indirizzare i vari settori di gestione emergenziale tutti interni al rapporto tra centro e periferia dell’organizzazione statal-regionale.

La mancanza della centralità organizzativa, della gestione delle risorse in eguale modo e misura su tutto il territorio della Repubblica, ha causato non solo una discrasia sul piano sanitario, che già pativa un deficit in termini di equipaggiamento veramente complessivo davanti allo scoppio di una epidemia su vasta scala (dalla mancanza dei posti in terapia intensiva all’insufficienza cronica dei cosiddetti “Dispositivi di protezione individuale“, quindi mascherine, camici, guanti, eccetera), ma ha prodotto a cascata un pasticciato assembramento di sconclusionati interventi istituzionali che si sovrapponevano, si rincorrevano generando nell’epoca fotonica della comunicazione “social” una indomabile confusione.

La funzione delle reti sociali internettiane diventa così, paradossalmente, non unificante, armonizzatrice, ma fortemente individualistica, poiché non esiste coordinamento di base, non c’è nessuna auto organizzazione delle informazioni che, piuttosto, vengono lanciate nella mischia del “chi piglia, piglia”. Senza verificare alcuna fonte, senza avere la pazienza di seguire quei canali istituzionali che saranno anche deprecabili a volte, anarchicamente parlando, ma che rimangono per lo meno un indirizzo chiaro sul piano scientifico-medico e quindi dettano una serie di comportamenti da mettere in pratica per generare le massime cautele del caso nei confronti della diffusione del virus.

Il venir meno dello stato-sociale e dello Stato centrale nei settori fondamentali per la tutela della salute pubblica e di tutti gli altri ambiti che concernono il benessere comune (quindi individuale), non ha giovato all’impatto con il Coronavirus nuovo e, anzi, ha dimostrato che il regionalismo autonomista è solo una finzione rispetto a quello che dovrebbe essere una organizzazione federale di uno Stato. Storicamente l’Italia è il Paese dei Comuni, dei mille campanili, delle piccole patrie: quindi a molti che vogliono fare profitti in questo frangente fa comodo dipingere l’ipotizzata (ma nemmeno poi tanto…) “autonomia differenziata” come un nuovo modello di unità nelle differenze fra i vari territori della Repubblica.

Sarebbe un ulteriore scivolare nell’errore, nella divisione classista tra regioni ricche e regioni povere, relegando queste ultime al massacro in una tempesta come quella del Covid-19, proprio nella stessa posizione in cui si trova il nostro Paese in Europa: trattato come l’ultima ruota del carro, lasciato al suo destino e salvato soltanto perché senza l’Italia crollerebbe tutto l’impianto monetarista e finanziario dell’Unione Europea. Se non fosse altro che per una mera questione di immagine: una Europa senza lo Stivale che si getta nel Mediterraneo e che fa da crocevia a gran parte delle merci che entrano nel Vecchio Continente, sarebbe impossibile da pensare. Da pensare per noi, da sostenere per coloro che gestiscono l’alta finanza…

Senza un nuovo stato-sociale non può esservi alcuna Repubblica vera, ma sempre e soltanto quella traduzione padronale del potere economico sulle istituzioni che rende il governo, come diceva il Moro, “il comitato di affari della borghesia“. Se dopo il Coronavirus andrà ripensata la sostanza istituzionale, per ottenere risultati sociali in questo senso, si dovrà potenziare il ruolo del Parlamento, tornare ad una rappresentanza mediante una legge elettorale proporzionale pura e riammettere nel comparto pubblico tutti i settori strategici per la vita della popolazione: scuola, sanità, sistema pensionistico, infrastrutture e trasporti, poste e telecomunicazioni, per cominciare.

E’ l’unica ricetta economica, sociale e politica per poter evitare un nuovo bagno di sovranismo, un oceano di retorica patriottarda e primatista italica, un isolazionismo xenofobo e razzista che, insieme al liberismo del centrosinistra, ci ha portati all’attuale disperata situazione che viviamo nel sopravvivere ogni giorno.

MARCO SFERINI

8 aprile 2020

Foto di Vektor Kunst iXimus da Pixabay

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