Musa Balde aveva 29 anni. Li aveva. Si è impiccato come Geordie perché gli aprissero i cancelli del CPR dove era stato rinchiuso, a Torino, dopo essere stato aggredito a Ventimiglia, sprangato perché migrante, perché di colore, perché povero, perché rappresentava “l’invasione“, perché era tutto il contrario di quanto una larga parte di questo Paese si aspetta di trovare sempre ad ogni angolo della sua quotidiana esistenza.
Bianchi, rassicuranti, dall’accento di casa, magari sovranisti, pieni d’odio verso il diverso: chiunque esso sia. Musa per questi era ciò che non deve stare in Italia. Così, dopo averlo curato, lo hanno portato a Torino in un centro di accoglienza. L’hanno però lasciato da solo con i suoi demoni interiori, con le sue ferite profonde, con le contusioni sulla pelle.
Musa non ce l’ha fatto a reggere il peso di una vita invivibile, senza prospettive: con l’unica certezza di un prossimo, imminente rimpatrio in Guinea.
Si è suicidato e ora la porta gliela devono aprire. Ma i suoi aggressori italiani restano a piede libero, impuniti, mentre Musa ha pagato il prezzo della vita per il solo fatto di volerla vivere esattamente come tutte e tutti noi.
(m.s.)
foto: screenshot You Tube