In questi due mesi di autoconservazione delle nostre vite dentro le mura di casa, siamo comunque riusciti a rimanere in contatto col mondo tramite tutta una serie di tecnologie internettiane e mediatiche che ci hanno permesso di confrontarci – seppure a distanza – sugli effetti che la pandemia ha avuto sulla struttura economica, sul sistema capitalistico moderno nella sua fase più spregiudicatamente liberista.
Dopo decenni passati a ricercare un senso politico e una pratica sociale per una sinistra progressista che avesse marcatamente i tratti della proposta comunista per un futuro tutt’altro che rassicurante per oltre due miliardi e mezzo di salariati nel mondo e per altri miliardi di proletari modernissimi nella sola loro indigenza permanente, ci troviamo oggi a segnare il passo.
Ci troviamo nuovamente a discutere sul senso dell’essere e dell’esserci, prigionieri di una ontologia politica esasperante, estenuante e priva di qualunque reazione propositiva nella riformulazione di una proposta. Solamente grazie ad un virus è tornato di attualità il tema della sfida che ci tocca affrontare, delle contraddizioni del sistema dello sfruttamento, delle merci e della proprietà privata dei mezzi di produzione, oggettivamente emersi davanti anche e soprattutto agli occhi dei cittadini e dei lavoratori privi di una coscienza del loro essere entro il contesto capitalistico, di essere sfruttati ogni giorno.
Nutrizione e rapporto tra animali umani e animali non-umani, rispetto dell’ecosistema, iperattività industriale, accumulazione di ingenti quantitativi di profitti lanciati nella finanziarizzazione dei mercati e nella sua endemica macchina speculativa, scalpitio confindustriale per la riapertura di tutte le attività produttive, naturalmente proposto come esercizio necessario “per il bene dell’economia nazionale“, per un bene comune che altro non è se non l’esca prediletta per far abboccare tutti coloro che si ritengono tanto necessari a questo “sforzo” quanto utili a sé stessi per poter sbarcare il lunario.
La sinistra comunista ha colto l’emergere di queste evidenze e la ha pure analizzate con documenti per altro un po’ posticci, ma ha fatto comunque questo passo e le va riconosciuto. Si tratta, però, sempre di analisi parziali e di forze politiche che oggi rappresentano soltanto il ricordo del loro passato e non lasciano ancora intravedere un futuro per un rilancio della proposta anticapitalista, per una nuova alterità politica rispetto a tutte le altre forze in campo che, tanto dallo schieramento governativo di maggioranza quanto a quello delle opposizioni, non offre nessuna sponda per poter fare leva sociale nei confronti della parte istituzionale, perché manca un partito che riprenda in mano la questione di classe e la faccia propria, veicolandola in un percorso che tenga insieme prospettiva e attualità concreta.
Sogno e realtà, utopia e contingenza dei problemi sociali devono poter trovare una nuova fusione a freddo delle differenze tattiche che dividono ancora oggi i comunisti dai comunisti e i comunisti dai lavoratori (e viceversa). Pertanto, i problemi sul tappeto sono molteplici e riguardano tanto un dialogo interno alla parte politica che si riconosce nella coscienza di classe, nella lotta di classe e nell’anticapitalismo; ma riguarda soprattutto noi e il mondo del lavoro, noi e il mondo del precariato, noi è il rapporto tra lavoro ed ambiente, tra diritti sociali e diritti civili. Riguarda, insomma, una sinistra che parte dal lavoro per affrontare tutte le caleidoscopiche sfaccettature della vita quotidiana di ogni essere umano e, perché no, anche animale che su questa terra è sfruttato e annientato da questo sfruttamento.
Teoria e prassi devono essere ricondotte a sintesi nell’azione politica e sociale di un nuovo partito che è necessario venga preso in considerazione valorizzando quanto è rimasto delle esperienze comuniste e libertarie dopo il crollo del Socialismo reale e la fine tanto del PCI quanto della nuova sinistra rappresentata da DP, da tanti piccoli gruppi extraparlamentari che trovarono a vario titolo posto nel processo costituente del Partito della Rifondazione Comunista.
Noi dobbiamo difendere questi presìdi politici rimasti. Ma dobbiamo farlo con la consapevolezza di una insufficienza non tanto numerica, organizzativa, ma sociale: per tornare a stabilire una connessione tra politica di classe e coscienza di classe, quindi coscienza sociale dei lavoratori e delle lavoratrici e di tutto il vasto sottobosco della parcellizzazione del lavoro (compreso naturalmente il lavoro in nero, il fenomeno dello sfruttamento dei migranti, ecc.), serve oltrepassare quella barricata che siamo diventati noi stessi nel momento in cui abbiamo smesso di scegliere da che parte stare e ci siamo o istituzionalizzati troppo o marginalizzati eccessivamente.
In entrambi i casi si tratta di errori da non ripetere più, soprattutto innanzi ai mutamenti anche politici che la crisi della pandemia da Coronavirus stabilirà come conseguenze a sé stessa.
A me pare evidente che, stravolgendo Tomasi Di Lampedusa, molto debba cambiare se vogliamo veramente cambiare. Prima di ogni altra cosa dobbiamo riconoscere che intendersi come “alternativa” al meno peggio non è una linea politica ma una mediocre tattica che non consente la ricostruzione di una visione ampia dei problemi sociali, ma limita il nostro punto di vista solamente al livello istituzionale, parlamentarista. Un cretinismo parlamentare che va assolutamente scongiurato tra i pericoli in cui possiamo incappare recidivamente. Ma, d’altro canto, commetteremmo un grossolano errore se ci pensassimo come forti proprio per aver escluso dalla nostra agenda di azione politica (e sociale) un ruolo nelle istituzioni repubblicane.
A patto di non cadere nella trappola dell'”alternanza” scambiata per “alternativa“, il lavoro che dobbiamo proseguire unitariamente nelle differenze che ancora oggi ci caratterizzano, è il punto di vista, l’osservazione critica, la dinamica che ne consegue se si osservano e si fanno osservare proprio i fatti sotto una chiave interpretativa che non segua il pensiero unico, la buona creanza, la morale della classe dominante, quella di una imprenditoria moderna che ha usufruito fino ad oggi di ingenti aiuti di Stato e ci ha lascito nello stato miserevole di una sanità depauperata, annichilita e spezzettata grazie alla straordinaria (si colga l’ironia, prego…) intuizione di una certa sinistra che si disse pronta a votare la riforma del Titolo V della Costituzione a suo tempo. Sempre, si capisce, “nell’interesse del Paese“.
Almeno su questo importante passaggio, noi di Rifondazione Comunista, eravamo riusciti a vedere bene i rischi. Scriveva “la Repubblica” a proposito il 4 ottobre 2001: “Rifondazione comunista voterà contro la riforma perché teme che le competenze assegnate dalla legge alle regioni possano “avviare una ulteriore fase di privatizzazione dei servizi” e quindi “aumentino le diseguaglianze” fra i cittadini“.
Pare evidente che, terminata la fase dell’emergenza sanitaria, quando riprenderà la sterile dialettica parlamentare tra maggioranza governativa ed opposizione fascio-sovranista, a questi due schieramenti vada contrapposto un nuovo soggetto politico che rappresenti quelle emergenze ritornate all’evidenza generale, quelle contraddizioni del sistema economico che si sono palesate nell’impossibilità di essere occultate anche dal migliore giornalismo al servizio dei grandi gruppi industriali e dei grandi agglomerati di potere finanziario.
Una costituente anticapitalista, riprendendo il filo dell’Assemblea delle Sinistre di opposizione, per una nuova stagione del movimento comunista in Italia va aperta e sperimentata nel suo divenire, tenendo presente che l’opinione di ognuno è indispensabile solo se accetta di far parte di una opportuna sintesi che non si dilunghi in chilometrici documenti e in infinite analisi, ma che focalizzi nell’immediatezza i messaggi da dare ad un mondo sommerso del non-lavoro e immerso di un lavoro che ha sempre meno tutele e che conosce sempre più sfruttamento. Con o senza mascherine. Purtroppo.
MARCO SFERINI
23 aprile 2020
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