Le proteste in atto in Iran sono il risultato della frustrazione della popolazione il cui potere d’acquisto è diminuito del 15 per cento in dieci anni. I cittadini della Repubblica islamica sono scesi in strada per lamentarsi del carovita, della disoccupazione, dell’inflazione, della corruzione, della mancanza di trasparenza delle istituzioni e della cattiva gestione della cosa pubblica.
All’attore iraniano Babak Karimi le manifestazioni di questi giorni ricordano «le primavere arabe, che poi si rivelarono null’altro che delle manovre di cambio regime mascherate da rivolta interna, non vorrei che questa gente finisse per fare da comparsa e prestanome di manovre altrui». Secondo Babak Karimi «la simultaneità delle proteste in più città e soprattutto gli slogan fanno pensare che ci sia dietro una regia, di chi non si sa!» Dopotutto in questi mesi il senatore repubblicano Tom Cotton dell’Arkansas, consigliere del presidente Trump, ha più volte invocato un intervento americano a sostegno del dissenso interno all’Iran.
Che nelle proteste ci sia lo zampino dei servizi americani, israeliani e sauditi è opinione condivisa da Jamileh Kadivar, ex deputata nella legislatura riformista ed esponente di spicco del movimento verde d’opposizione del 2009. Al telefono da Londra, dove vive in esilio con il marito Ataollah Mohajerani già ministro alla Cultura al tempo del presidente riformatore Muhammad Khatami, Jamileh Kadivar osserva: «Il primo giorno gli slogan dei manifestanti nella città santa di Mashad prendevano di mira il presidente Rohani», colpevole di aver proposto l’aumento dei prezzi di luce, gas e benzina a partire dal prossimo 21 marzo. «Ma già il secondo giorno gli slogan avevano assunto una connotazione più politica, l’impressione è che altri, forse dall’estero, abbiano stimolato e provocato ulteriori proteste in città al di là di Mashad».
Ad avanzare l’ipotesi che siano «agenti stranieri» a fomentare le proteste, in un primo momento spontanee, è stato anche il presidente moderato Hassan Rohani che nel discorso di domenica sera ha rinfacciato al suo omologo Donald Trump di avere tempo fa definito l’Iran «un paese di terroristi», mentre ora esprime solidarietà al popolo iraniano. Di certo, ha dichiarato Rohani, «gli interessi dei cittadini della Repubblica islamica non coincidono con quelli del presidente statunitense».
Di fatto, il sostegno aperto e deciso ai manifestanti di personaggi come il presidente americano Donald Trump può solo avere ripercussioni negative su coloro che protestano, perché dà alla polizia e alle milizie il pretesto per picchiare duro. Le quattrocento persone arrestate in questi giorni rischiano l’accusa di sedizione, che comporta pene pesanti.
Se Trump interviene, a parole, a favore dei manifestanti è forse per evitare che gli venga rinfacciato di non aver preso posizione, com’era accaduto durante le proteste del 2009, quando a Barack Obama era stato detto che aveva perso un’occasione d’oro per rovesciare il regime iraniano.
In ogni caso, agli Stati uniti e all’Europa la destabilizzazione dell’Iran non conviene, perché Teheran è il naturale baluardo contro l’Isis: se ayatollah e pasdaran non avessero dispiegato forze sul terreno, in Iraq e in Siria, l’Isis avrebbe potuto espandersi maggiormente nella regione. Eppure, nonostante gli interessi convergenti dell’Occidente e dell’Iran contro l’avanzata dell’Isis, il presidente statunitense ha fatto tutto il possibile per mettere in difficoltà il presidente iraniano Rohani: a metà ottobre Donald Trump aveva decertificato l’accordo nucleare, diffondendo maggiore incertezza gli investitori occidentali in cerca di opportunità sul mercato iraniano e già dubbiosi perché le sanzioni del Tesoro americano non sono mai state eliminate.
Ed è stata proprio la scarsità di investimenti stranieri a mettere in difficoltà il governo di Rohani, dando la possibilità alla destra conservatrice iraniana di criticarlo per aver ceduto, nel luglio del 2015, alle pressioni occidentali firmando l’accordo sul nucleare. Dai falchi di Teheran e dalla loro macchina repressiva, Rohani ha tentato di smarcarsi nel discorso di domenica sera, quando ha dichiarato che gli iraniani hanno il diritto di protestare per la difficile situazione economica, per la corruzione e la mancanza di trasparenza. Le istituzioni devono lasciare uno spazio per la critica, ma le manifestazioni non devono degenerare nella violenza e nella distruzione delle proprietà pubbliche di questi giorni.
A chi conviene la crisi della Repubblica islamica dell’Iran? Di certo non all’Europa, anche perché l’Iran è un partner importante nell’ambito dei programmi dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati: in questi decenni nella Repubblica islamica sono confluiti milioni di disperati, soprattutto dal vicino Afghanistan. Di certo la crisi iraniana fa il gioco di Israele, il cui obiettivo di lungo periodo è un Medio Oriente frammentato in stati nazione su base etnica e confessionale, troppo piccoli per rappresentare una minaccia per lo stato ebraico.
FARIAN SABAHI
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