Sarebbe ingenuo (e troppo provinciale) leggere l’esito delle elezioni tedesche con il solo metro dei risultati conseguiti dalle sinistre, e peggio ancora indugiando troppo sulle percentuali – peraltro in calo – di forze alternative come la Linke.
Nel voto tedesco di ieri c’è qualcosa da interpretare più nel profondo, un premio a un modello sociale che non appartiene, lì, solo ai centristi della Merkel ma al senso comune di una nazione che a suo modo sembra aver fatto per intero i conti con la storia. Si può – e c’è chi lo fa – invocare anche per la Germania la necessità di tenere unite le sinistre (che è sempre una buona cosa ) pensando che una coalizione tra Spd, Linke e verdi avrebbe potuto offrire una possibilità di alternativa concreta agli elettori. Ma questa petizione, in fondo a veder bene un po’ politicista, non riesce di certo a cancellare il dato preoccupante che dice che la sinistra in Germania si conferma una minoranza nel Paese.
E’ un dato, almeno questo, che avvicina i tedeschi all’Italia. Anche lì non mancano difficoltà sociali e diseguaglianze gravi – anche se in un quadro complessivo di ben diversa qualità e tenuta dell’economia e dell’occupazione – eppure le sinistre, né quella socialdemocratica né quella più alternativa e radicale, riescono a conseguire risultati troppo significativi. La loro base di consenso elettorale somiglia tremendamente a quella del Pd e della sinistra in Italia. Piccola borghesia, intellettuali, una parte di impiegati e di operai (ma tra questi ultimi, come da noi, non si vota più prioritariamente a sinistra). Lontani dal voto a sinistra sembrano invece essere gli elettori più giovani, quelli delusi che si erano allontanati dal voto e che anche se in una piccola parte sono tornati ai seggi, e i ceti più poveri anche in Germania attratti da suggestioni populiste antieuropee, sia pure senza impennate clamorose come da noi dove, tra il voto a Grillo e quello ad un centro destra che certo è diverso dal centrismo moderato della Cdu, si manifestano con più forza e dirompenza. Se questa, per quanto approssimativa analisi, contiene del vero temo che più che rallegrarsi del fatto che la sinistra radicale (peraltro la Linke è cosa ben diversa per maturità politica e spessore da quell’area composita e confusa che pretenderebbe di esserne l’omologo in Italia) abbia perso solo qualche punto contenendo le perdite occorra riflettere, ormai senza veli, sulla condizione in cui si trova la sinistra in tutto il continente.
Certo, a partire dalla battuta di arresto che subisce il progetto ambizioso che aveva animato in questi mesi le culture politiche migliori del socialismo in Europa. Dopo la vittoria di Hollande si era aperta una speranza grande. Non tanto il profilo del presidente eletto ma che la Francia svoltasse a sinistra aveva fatto sperare in una replica nel voto italiano. A quel punto, dentro una geografia politica europea in via di mutamento, forse anche il voto tedesco avrebbe potuto avere un segno diverso. Nasceva da questa speranza la piattaforma di Parigi dove, con mutamenti significativi di asse programmatico e politico, si è provato a rimettere in campo una proposta socialista che iniziasse ad affrancarsi dalla lunga soggezione che le sinistre europee avevano dovuto pagare all’egemonia neoconservatrice per almeno un ventennio. E’ chiaro che questo tentativo, almeno per ora, è fallito.
Le difficoltà di Hollande a tenere il campo senza altri interlocutori in Europa erano da tempo evidenti, il voto italiano ha dato i risultati che sappiamo. E ora questo esito tedesco chiude almeno per tutta una fase la questione, chiamando le forze del socialismo europeo ad un ben diverso sforzo, culturale e programmatico, se intendono coltivare la speranza di riconquistare un ruolo. Non sarà facile, ciò che si è rivelata fragile è quella idea che in fondo bastasse un simbolico recupero di temi di sinistra per rimontare più di vent’anni di oscuramento, a volte anche per boria soggettiva. In ogni caso un ciclo che ha visto prevalere – più ancora all’indomani della crisi drammatica e definitiva dell’esperienza dei socialismi realizzati nel 1989 – un liberismo trionfante capace di saldarsi a quell’ansia di mobilitazione civile e di cambiamento che, a torto o a ragione, la vicenda dell’Est europeo e il crollo del muro di Berlino avevano determinato nelle opinioni pubbliche in Europa.
La fine di questa illusione “breve” costringe ora tutti a sinistra a ripensare ogni cosa. Culture politiche, visioni economiche, strumenti organizzativi, programmi, rapporti con la società. E’ una sfida epocale che si riapre con l’avversario storico oggi vincente che – però – come accade per la Merkel – senza una correzione delle sue stesse politiche difficilmente potrà riuscire a fronteggiare le conseguenze di una crisi economica e sociale che ancora attraversa l’Europa intera e con un peso insopportabile nella sua parte meridionale e mediterranea. E’ in questo spazio, difficile da riempire sia chiaro, che le forze del socialismo europeo, e anche quelle aree più radicali che ne avessero voglia e capacità, dovranno elaborare e costruire una possibile ripresa. In queste ore i commentatori si dividono tra chi ritiene che l’affermazione netta darà alla cancelliera tedesca più forza per riaffermare l’austerità più rigida e ortodossa e chi, al contrario, pensa che proprio la forte vittoria (unitamente alla disfatta dei liberali) potrebbe mettere la Merkel al riparo delle pressioni delle ali più rigidamente monetariste e conferirle quel respiro europeista capace di interpretare le difficoltà economiche dei Paesi oggi in difficoltà. Difficile stabilire in queste ore quale potrà davvero essere la linea che sarà scelta. Di sicuro nessuno può essere così cieco da non cogliere che le tensioni sociali che il rigore finanziario ha prodotto un po’ dovunque sarebbero destinate ad accentuarsi con una Germania ripiegata su se stessa e sulla propria ortodossia monetarista.
Il modello sociale ( e anche istituzionale ) tedesco non è certo immune da contraddizioni e guasti. E tuttavia, pur con le paure e i disagi crescenti che anche in Germania maturano, è stato individuato dalla maggioranza degli elettori tedeschi come qualcosa da non sgretolare. Certo c’è nel voto, come sempre accade in un voto, un po’ di tutto. Il consenso all’austerità (degli altri) nel timore di doversene accollare il costo ma anche una riconferma di fiducia ad un modello sociale che resta il più prossimo in Europa a quello guadagnato nelle stagioni più felici del Welfare. E anche nel voto più strettamente politico, al di là del suo segno centrista, con la sconfitta netta della formazione populista e antieuropea resta una preferenza per un modello istituzionale democratico e che, sia pur troppo moderatamente, non pensa ad una “grande Germania” che si isoli dal resto dell’Europa.
Chiaro che da qui a immaginare un cambio di politiche ce ne passa. Ma questo sarà, se ne saranno capaci, sia pure in tempi diversi da quelli che avevamo erroneamente immaginati, il campo che dovranno provare ad arare le sinistre. Ricostruire una idea dell’Europa e anche di riconnettere il nesso tra se e le classi sociali più deboli non è un lavoro semplice, e non potrà procedere pensando di dover solo “ritornare” alle forme e ai contenuti del passato più remoto né tantomeno alle illusorie speranze del ventennio del blairismo. Anche per questo partirebbe con il piede sbagliato chi pretendesse di mettere spartiacque in questo cimento a partire dalle differenti collocazioni politico – parlamentari nei diversi Paesi.
Anzi direi che proprio su questo nodo – me ne rendo conto ostico – si determina la misura tra chi, a sinistra, avrà la maturità di aprire un cantiere di lavoro di lunga lena che faccia i conti con tutto (dalle scelte economiche al peso dei diversi poteri, dalla composizione di classe contemporanea alla rivoluzione della comunicazione) e chi si colloca in realtà (si chiamasse Renzi o Rodotà o anche Vendola o Ferrero) a ridosso del populismo con l’obiettivo di guadagnare qualche posizione elettorale nel breve. Il quadro dell’Italia e dell’Europa che abbiamo davanti, e ancor più dopo questo voto tedesco, non ci chiede arroccamenti né ammiccamenti populisti ma piuttosto una grande battaglia di cambiamento vero (anche riforme strutturali e perfino, come dice il politologo Werner Muller,un nuovo contratto sociale). Una battaglia politica e culturale, nella società e anche nella sinistra, per disegnare un altro profilo all’Europa, per dare consistenza a un indirizzo alternativo all’austerità ad oltranza e per rivalutare la politica come argine democratico all’arbitrio della finanza e dell’economia.
VITO NOCERA
redazionale