Alice Weidel è la leader di Alternative für Deutschland (AfD), il partito tedesco più a destra di tutti, di cui Wikipedia elenca le aree o fazioni interne: antisemitismo, xenofobia, neonazismo, identitarismo. In una intervista a “la Repubblica” di qualche tempo fa, nei confronti di Giorgia Meloni da quelle parti veniva affermato che il lavoro del governo italiano era pressoché “impeccabile“. Forse giudicato persino troppo moderato, visti i toni che la Weidel e i suoi accoliti riservano tanto alle minoranze interne quanto alla politica europea ed internazionale.
Nella sua prima fase esistenziale, l’AfD si era concentrata completamente su un recupero dell’identità tedesca come elemento portante di una nuova ideologia nazionalista che abbracciasse un collateralismo interclassista, mostrando una certa distanza dall’ispirazione originaria dell’estremissima destra tedesca dei primi decenni novecenteschi, quando il movimento völkisch propendeva per una convergenza tra socialismo e patriottismo: per sottrarre da un lato ai “rossi” l’egemonia culturale e politica sulla classe lavoratrice e, dall’altro, impedire al centrismo di essere il solo referente della borghesia.
Soltato una decina di anni fa, Alternative für Deutschland era la capofila di un ritorno al Marco, dell’uscita – dunque – dall’Unione Europea e di un recupero pressoché totale della sovranità da parte di una Germania riunificata non molti decenni or sono. Il suo conservatorismo era mostrato al Vecchio continente come un baluardo ideologico che attingeva dal passato “soltanto” ciò che riguardava una sorta di intangibilità etnica che rasentava comunque una qualche retrospettiva di “purezza razziale“.
I suoi sostenitori, incoraggiati da una propaganda anti-immigrazione, discriminatoria nei confronti di tutte le minoranze, si lasciano andare ad atteggiamenti apertamente xenofobi il cui retropensiero è l’ossessione per la preservazione dell’identità nazionale tedesca. Riferisce “Internazionale“, riportando una inchiesta dell’agenzia investigativa “Correctiv“, che negli incontri pubblici si fa esplicitamente riferimento alle preoccupazioni «…se noi, in quanto popolo, potremo o meno sopravvivere in occidente…». Non che si possa affermare che questo sia il pensiero predominante nella popolazione tedesca, ma indubbiamente questo strisciante dilemma, talvolta carsico, aleggia in Germania.
Parliamo sempre della nazione europea che fa registrare uno dei tenori di vita migliori rispetto agli altri ventisei Stati che compongono l’Unione e che, quindi, tutt’oggi, è ritenuta la “locomotiva d’Europa“. Non ci troviamo, dunque, nella congiuntura di crisi verticale di un dopoguerra come nel primo Novecento, con una svalutazione monetaria esorbitante, con un disagio sociale allarmante, ma esistono delle similitudini altrettanto preoccupanti: perché siamo in una economia di guerra, dettata dal conflitto russo-ucraino; perché il governo dimissionario tedesco ha, almeno fino ad oggi, preferito finanziare questo tipo di economia piuttosto che prodursi in atti diplomatici e indurre la UE a fare altrettanto.
Perché, poi, le crisi ambientali e le grandi migrazioni che ne conseguono (indotte indubbiamente da tanti altri connessi elementi di contraddizione antisociale nei paesi di un “terzo mondo” divenuto nuovamente terreno di colonizzazione in un multipolarismo prepotentemente teso ad un futuro del tutto incerto) stanno fomentando le peggiori istintività malpanciste di una insofferenza diffusa che trova rifugio nelle grida ossessive del fobico “si salvi chi può” urlato proprio dalle destre più retrive e conservatrici. Alternative für Deutschland è una di queste destre.
Il panorama internazionale è fecondo per una riesumazione delle peggiori zombiche contrapposizioni antisociali. Lo ha spiegato molto bene Corrado Augias, intervistato da Giovanni Floris su La7: il mondo intero è cambiato e noi abbiamo preteso di continuare ad analizzarlo con categorie anche del recente passato che non sono minimamente più adeguate a questo compito. Occorre aggiornare non soltanto il vocabolario con cui tradurre le nuove terminologie e i nuovi lemmi che esprimono concetti prima inconcepibili, ma, ancora più urgente, è la necessità di avere contezza delle mutazioni in atto.
In questo quadro complesso, la politica aggiorna le sue chiavi interpretative e mostra, sebbene in affanno sul piano inclinato delle sempre più incerte democrazie plurisecolarmente ereditate, una qualche autorevole capacità di contendere il potere con una struttura economica locale e globale: altrimenti alla corte di Trump non farebbero oggi la fila per essere nelle sue grazie i più potenti magnati della Silicon Valley.
Giorni fa, Ann Telnaes, vignettista del “Washignton Post” (di proprietà di Jeff Bezos, magnate di Amazon), è stata licenziata perché aveva disegnato anche il suo padrone tutto proteso dal basso di una scalinata ad offrire i suoi servigi al Presidente neoeletto americano.
Quella riprodotta qui accanto, più che una vignetta satirica era una constatazione, una presa d’atto del fatto che non soltanto il potere è in mano ai più grandi ricchi del pianeta ma che, almeno per amministrarlo, per gestire complicati rapporti internazionali, serve tutt’oggi la mediazione della politica. Donald Trump è utile ad Elon Musk e viceversa. Entrambi rappresentano per la moderna destra mondiale oggi un punto di riferimento pressoché intoccabile. Da Javier Milei a Giorgia Meloni, da Santiago Abascal a Viktor Orbán, l’internazionale nera consolida le sue postazioni multipolari e gareggia, in quanto ad autoritarismo, con quei paesi che sono oltre il punto di non ritorno democratico.
Alice Wiedel, appunto, è tra loro la rappresentante di un neonazi-onalismo non nuovo, ma che oggi può vantare una diffusione piuttosto capillare nell’Occidente così come in zone e contesti in cui prima era impensabile che la destra estrema potesse così fortemente penetrare. Gli Stati Uniti d’America tra tutti. I repubblicani sono, nella loro accezione politica e ideologica moderna, conservatori per eccellenza. Ma il trumpismo è un avvitamento etno-plutocraticentrico che ha sorpreso persino le alte sfere del Fondo Monetario Internazionale. Non tanto nella prima presidenza del tycoon, quanto nella fortunosa capacità di saper approfittare del vuoto cosmico lasciato dal bidenismo sul terreno sociale.
Se in Germania è Olaf Scholz ad offrire vaste praterie di consenso ad Alice Wiedel, che interloquisce con Elon Musk e che si compiace persino di definire Adolf Hitler un “comunista” (la realtà supera qualunque immaginabile fantasia!) perché nazionalizzava le aziende (questo è vero fino ad certo punto..,) e averne persino magnificato la legislazione limitante (e sopprimente) la libertà di espressione, di stampa, di critica «senza cui – citiamo – non avrebbe potuto fare molte cose», in America è la frana democratica sul piano dei diritti sociali ad aver aperto altri varchi all’ideologia dirompente del MAGA.
Musk, dopo aver aperto la lotteria popolare per assegnare premi a chi votata Trump, oggi sponsorizza Weidel e l’AfD come l’unica possibilità di “salvare la Germania“. Un capitalista che vuole salvare i tedeschi dal capitalismo? Si farebbe davvero fatica a dipanare la matassa cortocircuitale che sembra trovarsi davanti, se non fosse che qui il ruolo del sistema economico gioca una partita tutt’altro che lineare: gli interessi americani stanno oltrepassando qualunque confine un tempo stabilito tra gli scambi commerciali, tra le rispettive zone di influenza del mercato. La vicendevolezza dei rapporti è in crisi.
Trump lo dice chiaramente: gli Stati Uniti d’America sono pronti a mettere dei dazi sulle merci altrui se i paesi da cui provengono si rifiutano o si rifiuteranno di comperare prodotti a stelle e striscie. Qui si innesta anche una sfida, completamente ascrivibile al liberismo che fa dello Stato il cavalier servente del profitto a tutti i costi, ad una vecchia destra che aveva un certo rispetto delle compartimentazioni concorrenziali, per evitare di sovrapporre mercato a mercato, interesse ad interesse. Musk sembra avere, insieme a Trump, una idea nuovamente unipolare del mondo e concepirlo soltanto a trazione statunitense.
Le nuove destre neonazi-onaliste, conservatrici e iperliberiste si uniscono sull’esaltazione dei propri paesi in un contesto in cui lo sviluppo locale sia la premessa per una condivisione globale e non viveversa. Quindi, il capitalismo viene portato per mano in una nuova fase di rielaborazione tanto concettuale quanto pratica dell’imperialismo: la funzione delle guerre è propedeutica a questa geopolitica aggressiva che comprende xenofobia, razzismo, autoctonia dei diritti, preservazione pseudo-razziale dei popoli, conservazione delle proprie economie in una settorialità aperta comunque all’evidente fase multipolare.
Ossia: né Trump né Musk escludono rapporti con la Russia, la Cina e l’India, ma intendono anzitutto farlo nell’interesse esclusivo dell’America. E questa disegualità di rapporti, non dichiarata ma oggettivamente tale, è la premessa per nuove contese sul campo che determinino una ridefinizione dell’egemonia di vaste regioni del pianeta. In Europa, oltre a Giorgia Meloni, i due presidenti americani (l’uno eletto e l’altro nominato dall’eletto) puntano sull’amicizia stretta con tutti i leader della più aspra e reazionaria destra che si possa trovare. Weidel diviene così la proconsole trumpiano-muskiana, sponsorizzata all’elettorato sofferente della Germania insoddisfatta dalla socialdemocrazia e dall’ecologismo.
C’è da giurarci che, tra un mese, avrà un enorme successo e potrà così spostare ancora più a destra l’asse di una Europa a rischio frantumazione. Un’ipotesi, quella della deflagrazione della UE, che, si può illazionare, non dispiaccia affatto a Donald Trump. Meno forse alla BCE e al FMI, così come alla Banca Mondiale. Ma per il momento questi sembrano dei dettagli: soltanto trent’anni fa si sarebbero invece tenuti d’acconto come indirizzi dello sviluppo capitalistico globale.
Una dettatura della politica internazionale in una fase in cui il mutamento mondiale inscena una ripresa della rappresentanza del disagio sociale diffuso da parte delle destre peggiori che, senza una vera alternativa di contro, paiono l’unico appiglio a cui si possano aggrappare le centinaia di milioni di esseri umani piombati in un neopauperismo tutt’altro che di facciata. La concretezza della crisi del neocapitalismo iperliberista, gestita da destra e con il piglio autoritario della mutazione sostanziale delle democrazie in democrature o oligarchie di nuovo modello, è quindi la certezza che ci si staglia davanti hic et nunc con spietato realismo.
Senza una internazionalizzazione dei bisogni popolari e sociali, senza una ricomposizione del progressismo europeo, e non solo, sarà molto difficile poter confidare in una apertura di nuove contraddizioni così dirimenti per questo asse nero che si fa prepotetemente avanti sul palcoscenico della tragedia della terza guerra mondiale in tanti pezzi, ingannevolmente separati fra loro da troppi particolari regionalisti. La saldatura tra autoritarismo di destra e capitalismo moderno, nella debolezza delle forze sociali e di sinistra oggi, può avere un carattere deflagrante. Per molto tempo.
Ed è proprio quest’ultimo elemento che fa scongiurato. La tendenza all’irreversibilità di un momento storico, perché oggettivamente lo è, in cui si creino le premesse per una irrisolvibilità a breve termine delle (s)ragioni che ci hanno portato a questo punto. A partire dal mondo del lavoro e della scuola, del disagio e della povertà crescente va creata una saldatura neosocialista, un “benecomunismo” capace di mostrare tutte le opportunistiche politiche delle destre ai più deboli che ne sono sedotti e che, puntualmente, poi vengono abbandonati.
Troppo tempo è stato perso. E questi, poi, sono i risultati…
MARCO SFERINI
10 gennaio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria