Bill Waterson, celebre autore di quello straordinario fumetto a strisce che ha per protagonisti “Calvin & Hobbes“, affermava che la vera prova attestante l’esistenza di altre forme di vita intelligente nell’Universo era data proprio dal fatto che queste non ci avevano mai contattato in tutto il corso della nostra storia. L’ironia ci preserva dalla rassegnazione a considerare la specie soltanto dal punto di vista morale: perché il bilancio etico non è poi così positivo (per usare un eufemismo).
Eppure, siccome l’ambivalenza è caratteristica dialettica nei comportamenti della materia (basti pensare ai classici opposti: luce e oscurità, caldo e freddo, morbido e rigido, fragile e solido, eccetera), non si può del tutto escludere ed eludere il fatto che noi animali umani sappiamo anche fare cose buone, degne di essere ricordate.
Purtroppo solo da noi stessi, perché l’autocoscienza ad un certo livello di capacità critica è propria esclusivamente della nostra specie. Il mistero dell’esistenza in quanto tale e, di conseguenza, di ciò che questa comprende, ossia l’Universo per come lo conosciamo, per come lo riusciamo ad interpretare, secondo categorie e schemi fondati, oltre che sull’empirismo concreto, anche su percezioni metafisiche e canoni, come la matematica, che sono prettamente tali, è e rimarrà un mistero.
Per fortuna, verrebbe da dire. Perché in questo modo avremo sempre, nel “breve” ciclo evolutivo di una specie vivente come la nostra (si ipotizza circa cinque milioni di anni, rispetto alla possibilità che la Terra possa durare ancora qualche miliardo di anni, in relazione alle mutazioni del Sole), quella voglia di conoscere che non ci renderà del tutto impossibile sopportare l’esistenza come titanica irrisolutezza.
Chi si pone qualche domanda, seppure astratta, astraendosi proprio dal microcosmo del quotidiano, guardando le stelle, osservando terra e cielo, la potenza della Natura e la finitudine e caducità di ogni cosa, non può non sentire queste incognite come qualcosa di atavicamente primordiale. Il perché dell’esistenza del tutto o, se vogliamo, anche di quello che possiamo pensare come il “niente” ma che, proprio perché concettualmente espresso è, almeno in astratto e metafisicamente qualcosa, non è un quesito per il semplice fatto che è destinato a rimanere senza una risposta.
Date queste premesse, qualunque domanda che non possa aspirare ad essere risolta da una risposa, in un breve o anche in un lunghissimo periodo, è un paradosso di sé stessa e, quindi, nemmeno la si potrebbe definire in quanto tale. Diciamo che, ogni volta che ci poniamo questi enormissimi interrogativi, niente altro facciamo se non stimolare due istinti: la mancanza di ossigeno mentale, propriamente vitale per poter trovare un briciolo di logicità in noi stessi e nel nostro rapporto con il resto dell’esistente; la voglia di comprendere sempre più l’ignoto.
La scienza ha fatto, in questi ultimi centocinquant’anni, dei passi veramente da gigante nell’esplorazione, seppure parziale, dell’Universo osservabile. L’aggettivazione è d’obbligo, per il fatto che oltre quello che i nostri telescopi e sonde spaziali possono vedere c’è indubbiamente molto altro. Forse quello che la nostra mente non riesce a concepire: l’infinito. Perché il “dove” include sempre un luogo molto preciso e non la vastità che, per quanto tale, è comunque riscontrabile, quindi pensabile come molto ampia ma non senza una fine.
Viviamo confinati nei contorni del nostro corpo e oltre noi c’è un mondo fatto di limiti, di geometrie euclidee fatte di punti, rette piani e spazi. La meccanica quantistica è penetrata nell’infinitamente piccolo e ci ha mostrato quello che prima sarebbe stato impensabile. Proprio come rimane impensabile l’Universo esistente da sempre, infinito, buio (perché è buio) e privo di suoni (perché nello spazio profondo le onde sonore che conosciamo non si propagano come nei film di fantascienza).
Nulla di quanto successivamente scoperto alla morte di Albert Einstein ha, fino ad ora, superato la Teoria della relatività. Ma, ad esempio, che fosse proprio la fisica quantistica ad aprire nuovi orizzonti alla conoscenza dell’attualmente ignotissima ampia parte di materia oscura e di energia oscura che c’è nell’Universo, lo scienziato di Ulm lo avrebbe se non escluso, almeno criticato con sagace capacità intellettiva e forse anche dimostrativa.
Gian Francesco Giudice, direttore del Dipartimento di Fisica Teorica del CERN, ha scritto un volume inebriante. Vedendolo sugli scaffali delle librerie non si può resistere dal prenderlo e leggerselo comodamente a casa (dopo averlo pagato, si intende…) per immergersi nel dilemma su cosa c’era “Prima del Big Bang” (Rizzoli, 2023). Sottotitolo: “Come è iniziato l’Universo e cosa è avvenuto prima“.
La narrazione scientifica degli ultimi cinquanta, sessant’anni, ci ha abituato a considerare la teoria della grandissima prima esplosione di una concetratissima bolla di materia ed energia in cui vi erano tutte le forze naturali che si sarebbero poi sviluppate, come il punto di inizio dello spazio-tempo, quindi dell’Universo per come lo intendiamo nella più classica delle rappresentazioni: pianeti, stelle, galassie, miliardi di corpi di varia grandezza che vagano in un vuoto che per noi ha un significato e per l’astrofisica ne ha un altro.
Le prime cento pagine del libro di Giudice sono la descrizione precisa e puntale della cosmologia attuale. La seconda parte del suo libro è invece dedicata alle prospettive. E qui si apre più di un ventaglio di ipotesi: perché non si tratta soltanto di illazioni fantastiche, come a prima vista si potrebbe pensare, pur provenendo ad un autorevole scienziato. Sulla base di quello che sappiamo ad oggi, si formulano teorizzazioni che aspirano ad essere un giorno oggetto di dimostrazione.
Osservazioni astronomiche e conoscenza della fisica si sono compenetrate e hanno permesso, negli ultimi decenni, di passare dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, scoprendo così tutto un mondo nel mondo che pensavamo di conoscere fino all’atomo. Proprio la “Big bang theory” suppone che in uno spazio centimetrale dello zero virgola con tantissimi zeri prima dell’uno finale, si trovasse tutto quello che oggi noi vediamo e percepiamo. Tutto, proprio tutto.
E che questo tutto avesse in sé non solo materia propriamente intesa e detta ma anche una “energia del vuoto” che, invece di comportarsi come la gravità, essendo quindi attrattiva, fosse invece repulsiva, spingendo quella inimmaginabile concentrazione del tutto nell’immensità che è a noi visibile. Forse, nella nostra concezione un po’ atavica di antropocentrismo e geocentrismo, colpevole la nostra storica solitudine nell’infinito che ci fa porre al centro dell’esistente per farci sentire protagonisti, in un certo qual modo, dell’esistenza stessa, ha indotto tutti in un equivoco.
L’essere, in sostanza, oggetto e soggetto di noi stessi e pensare all’Universo come a qualcosa che, messo pure da parte il sistema tolemaico, nonostante tutto ci riguardasse prima di ogni altra cosa: ossia che esistesse in nostra funzione e non di per sé. Dobbiamo anche ipotizzare che ciò che esiste, esista prescindendo dal processo evolutivo un po’ sempre viziato da una interpretazione creazionista.
Noi siamo – come bene sottolineava Margherita Hack – davvero “figli delle stelle“, perché siamo fatti della materia stessa di cui sono composti i pianeti e le sfere celesti che ci ruotano attorno e attorno a cui noi ruotiamo. Siamo idrogeno, ossigeno… Siamo uno stadio di complessità della materia che è stata capace di evolversi al punto tale da creare la vita nell’esistenza e una vita capace di osservare l’esistente, averne contezza almeno al punto di capire che noi esistiamo e che ciò che ci circonda è la nostra origine.
Affermava Stephen Hawking: «Siamo solo una specie evoluta di scimmie su un pianeta minore di una stella media. Ma siamo in grado di capire l’Universo. Questo ci rende qualcosa di molto speciale». Meglio, probabilmente, non si potrebbe dire in quanto a congiunzione tra ricerca scientifica e speculazione filosofica sull’essere e sull’esserci. L’ontologia rischia di inquinare un dibattito accademico che può essere a portata un po’ di tutte e tutti quei neofiti (come chi scrive) che si appassionano al “grande mistero“.
La “Teoria dell’Inflazione“, che non smentisce quella della relatività einsteiniana, ammette l’energia del vuoto come motore dal Big Bang in avanti. Ma che cos’è, dunque, la grande esplosione avvenuta circa quattordici miliardi di anni fa? Scrive Gian Francesco Giudice che si tratta di tratta dell’istante in cui tutta la materia accumulatasi nella piccolissima bolla primordiale (molto più piccola di un virus come la Covid19) si riscalda e poi si dilata in un quadriliardesimo di nanosecondo e diviene, in parte (perché noi soltanto in parte la possiamo osservare) ciò che a noi è oggi permesso arrivare con la vista di potenti telescopi.
Il libro di Giudice somiglia ad un giallo: il Big Bang è l’attore sulla scena non di un delitto, ma di un mistero che la Teoria dell’Inflazione tende progressivamente a spiegare, ma non a risolvere del tutto. Perché, arrivati ad una nuova verità su un determinato fatto che riguarda il comportamento della materia, noi sappiamo, grazie alla scienza, qualcosa in più sull’Universo e anche su noi stessi che ne facciamo parte, ma non arriviamo al “perché” tutto questo esiste.
Ma iniziamo a poter immaginare che un’ipotesi su cosa vi fosse prima del Big Bang non è un’offesa all’altra ipotesi, quella di Dio, ma un ragionevole dubbio. Anzi, dalla Teoria dell’Inflazione di questi dubbi ne sfavillano a centinaia e sono manna per la voracità della ricerca che non ha soste pur avendo degli oggettivi limiti che vuole costantemente superare. E – si domanda il professor Giudice – se il nostro Universo fosse una “goccia” nel grande, immenso oceano di un “multiverso“?
Quello che è certo è lo spostamento del punto di osservazione da parte dell’umanità: dall’essere e dal considerarci prima al centro del sistema solare, al centro della galassia e di questa al centro di centinaia di miliardi di altre galassie, siamo passati al pensarci periferici o, quanto meno, non più il punto attorno a cui l’esistente c’è e si articola nella sua mutevolezza continua. Non la meschinità soltanto della nostra finitudine qui si contempla, ma soprattutto la capacità straordinaria di poter capire, indagare e forse sapere.
Questa specialità la dovremmo preservare, provando a dare alla nostra specie una opportunità in più rispetto a ciò che facciamo oggi, rincorrendo poteri, profitti che ci conducono all’autodistruzione. Questa straordinaria intelligenza umana la dobbiamo mettere al servizio di tutto il pianeta, preservandone le caratteristiche naturali tutte, rispettando tutti gli esseri viventi. Finendola così di ritenerci i soli per cui questo Universo esiste.
PRIMA DEL BIG BANG
COME È INIZIATO L’UNIVERSO E COSA È AVVENUTO PRIMA
GIAN FRANCESCO GIUDICE
RIZZOLI, 2023
€ 13,00
MARCO SFERINI
18 dicembre 2024
foto: particolare della copertina del libro
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