La primavera referendaria contro il governo della vergogna

Presi nella loro omogeneità socio-istituzionale, politica ed economica, i referendum che, con tutta probabilità, si terranno nella prossima primavera sono, nell’insieme, un elemento di grande impatto nella stretta attualità...

Presi nella loro omogeneità socio-istituzionale, politica ed economica, i referendum che, con tutta probabilità, si terranno nella prossima primavera sono, nell’insieme, un elemento di grande impatto nella stretta attualità di questa Italia meloniana che sembra non riuscire quasi mai a trovare un fronte unico di opposizione alle azioni del governo. In alcuni casi, come sull’autonomia differenziata, si può parlare di “campo larghissimo“, perché da Rifondazione Comunista fino ad Italia Viva la condivisione sulla contrarietà alla riforma di Calderoli è pressoché univoca.

Lo strumento referendario, quindi, espressione genuina della volontà popolare oltre il voto politico, oltre la delega parlamentare, assume un connotato di democrazia direttissima, di sostanziazione della sovranità lì dove deve essenzialmente trovarsi: nelle decine di milioni di italiani che sono la Nazione. Qualcosa di molto differente rispetto al banale ricorso ad un patriottismo di facciata che il governo è pronto a barattare per accreditarsi, tanto con le istituzioni dell’alta finanza europea quanto con quelle del bellicismo nordatlantico, un posto al sole.

Per la seconda volta, dopo la sonora bocciatura da parte della Corte Costituzionale, la legge sull’autonomia differenziata viene messa sotto esame e considerata per quello che è: un limite estremo di un regionalismo che non unisce ma separa, che non rende condivisi i diritti universali sul piano di una eguaglianza concreta e fattiva, ma assicura privilegi alle regioni più ricche e condanna quelle povere ad un destino di sudditanza alle variabili di una economia che traina solamente chi regge (faticosamente) il passo con la competizione continentale (piuttosto in difficoltà nel contesto globale).

Il progetto leghista frana anche se non è del tutto sconfitto. Quello premieristico non procede. Soltanto la controriforma sulla giustizia sembra avere una qualche fortunoso passaggio ulteriore. Ma le crepe interne alla maggioranza di governo non si saldano e la tensione resta alta: soprattutto perché il salvinismo è in disgrazia e, come un pugile pesantemente suonato, barcolla, si piega sulle ginocchia, si rialza ma traballa sempre. La dura, ostentata e praticata avversione nei confronti dei diritti delle minoranze, delle differenze sociali, culturali e civili, alla fine non paga. Se ne evincono anche dalle parti di Fratelli d’Italia.

Sta di fatto che i sei referendum proposti, sull’autonomia differenziata, sulla riduzione dei tempi di acquisizione della cittadinanza italiana, sul lavoro stabile, sicuro, dignitoso e tutelato divengono la quintessenza di una pacifica ma risoluta offensiva politica e sociale contro un esecutivo che sta facendo l’esatto opposto rispetto all’unire il Paese attorno a grandi interessi pubblici, bisogni da soddisfare e reti di protezione e di garanzia da allargare ed estendere al maggior numero possibile di indigenti, di nuovi poveri, di precari e senza occupazione.

C’è un legame profondo tra i quesiti proposti, anche se i soggetti promotori sono differenti perché rappresentano da un lato il mondo della civicità, della politica, dall’altro quello del lavoro. Questo legame, questo fil rouge è la reciprocità che si riscontra nella difesa, da un lato dell’impianto egualitario garantito dalla Costituzione in materia generale di diritti, da nord a sud del Paese; dall’altro è la conseguenza di questo principio primo: il fatto che l’occupazione non sia una opzione ma una sicurezza per tutte e per tutti.

Non c’è regionalismo possibile senza una unità nazionale che si fondi sull’uguaglianza e sulla giustizia sociale. Non esiste nessuna tutela, di alcun tipo, se non si recupera anzitutto la preminenza del pubblico rispetto al privato e se non si mettono, proprio sulla scorta di ciò, avanti a tutto il lavoro, la salute, la scuola, il sistema previdenziale, la tutela delle comunità, quella dell’ambiente e l’efficienza delle infrastrutture. A questo proposito essenziali sono i quesiti proposti dalla CGIL: dovremmo essere tutti d’accordo sul fatto che sia legittimo reintegrare un lavoratore nel suo posto di lavoro se il suo licenziamento è stato illegittimo.

Quell’obbrobrio giuslavorista che è Jobs Act ad oggi consente alle imprese di non riassumere il dipendente che è stato cacciato ingiustamente, senza un giustificato motivo. Questa arbitrarietà liberista va eliminata e bene ha fatto il sindacato di Landini a muovere in questa direzione, scuotendo chi, come il PD, è stato nella fase renziana promotore di norme completamente acquiescenti nei confronti del padronato, a tutto discapito delle lavoratrici e dei lavoratori, e che tutt’oggi si trova quindi parecchio in imbarazzo nel prendere una posizione nel merito del quesito così come sul futuro pronunciamento popolare.

Ci si ricorderà la lotta per evitare che l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori venisse superato e abrogato. Una lotta perduta a suo tempo. Ma oggi, sempre grazie alla CGIL, si può rimettere qualche tassello a posto anche in questo frangente: se una impresa sotto i quindici dipendenti licenzia ingiustamente più lavoratori, almeno l’indennizzo che tocca loro deve essere svincolato da un tesso massimo e, quindi, poter essere valutato adeguatamente senza preclusioni, salvaguardando così, seppure minimamente, il valore della forza lavoro, la sua dignità e le potenzialità che ancora può esprimere.

Un terzo quesito riguarda la piaga del lavoro a termine: va cancellata la liberalizzazione di questi contratti che sono vere e proprie premesse di una moderna schiavitù che oltrepassa qualunque concezione immaginabile di sfruttamento. La precarietà andrebbe superata in ogni contratto di lavoro e si dovrebbe tornare ad un rapporto stabile e duraturo tra imprese e maestranze, considerando l’occupazione non qualcosa di variabile a seconda delle fluttuazioni dei profitti, ma di inamovibili secondo le esigenze e il diritto ad una esistenza dignitosa per ognuno, per tutte e tutti.

Quarto e ultimo quesito sindacale, quello sulla sicurezza sul lavoro. Oggi esistono norme che impediscono di estendere la responsabilità degli infortuni e delle morti nei cantieri e in qualunque altro settore occupazionale alle imprese appaltatrici. Anche questa esenzione è uno sfregio ai diritti fondamentali richiamati dalla Carta del 1948 in materia di tutela tanto dell’occupazione quanto dell’integrità fisica di chiunque. Dalle privatizzazioni come scoperta di una presunta modernità dei rapporti socio-economici, entro una dinamica che avrebbe dovuto essere virtuosa per le classi in continua (seppure apparentemente invisibile) lotta fra loro, si è arrivati a questi estremi.

Lo Stato, aderendo in tutto in e per tutto al dettame liberista concepito negli anni Settanta del secolo scorso, ha supportato questa impostazione di sbilanciamento antisociale e ha implementato, compiacenti i governi che si sono susseguiti nel corso, fondamentalmente, degli ultimi vent’anni, una logica affaristica che non tenesse in nessunissimo conto la qualità esistenziale delle lavoratrici e dei lavoratori, facendone soltanto una merce di scambio con altra disperazione pronta a bussare alla porta del ricambio ricattatorio.

La questione della cittadinanza italiana, ancora oggi ottenibile dai provenienti da paesi extra-UE soltanto dopo dieci anni, di cui quattro di questi di presenza ininterrotta sul territorio della Repubblica e con un reddito minimo del richiedente di almeno 8.200 euro annui (che divengono 11.000 se si hanno figli a carico), è un tema che fa il paio con i diritti di chi lavora, così come di chi è perennemente esposto alle intemperie di una precarietà estrema. Vi sono più di due milioni e mezzo di persone che sono in un limbo legislativo, in una palude dei non-diritti, in uno status giuridico che è veramente incivile.

La regolarizzazione di queste storture assume, insieme alla messa al bando del progetto calderoliano, le fattezze di un intervento davvero popolare e di massa nei confronti di un governo che ha un consenso indubbiamente ampio ma che, nonostante ciò, non può e non potrà mai affermare di rappresentare la volontà dell’intera nazione. Il miglior modo per sconfessare le politiche dell’esecutivo melionano è bocciare anche con i referendum quelle controriforme che vorrebbero alterare gli equilibri tra i poteri dello Stato o il rapporto tra le regioni o tra queste e la Repubblica.

Cittadinanza, lavoro e impianto istituzionale sono da sempre interconnessi e non scopriamo oggi l’importanza di questa compenetrazione reciproca. Senza diritti sociali non ci sono nemmeno gli altri diritti. Se viene negata la possibilità di poter avere un’esistenza dignitosa, non si potrà pensare di godere appieno dei presupposti di una civiltà e di una civicità degne di questo nome. Così come l’umanità, garantita dai trattati e dalle carte internazionali, verrebbe ad essere (come nei fatti oggi è) un elemento di secondo piano rispetto alle prerogative del mercato, del capitalismo e della sua torsione liberista.

Questo governo, fatto di destre prepotenti e prive di qualunque scrupolo democratico e sociale, va sconfitto anzitutto unendo le differenze che intercorrono nella politica di partito, tra i sindacati, tra le forze sociali e civili: va creato un ampio fronte di salute pubblica che riguardi prima di ogni altra cosa la protezione delle libertà civili nell’ambito esclusivo delle garanzie sociali. Le parole di Sandro Pertini sono evocative di una ritrovata consapevolezza dell’importanza della crasi tra giustizia sociale e libertà. Non può esistere l’una senza l’altra. I tentativi di mascherare le controriforme con una modernizzazione del Paese stanno clamorosamente fallendo.

Si scontrano con l’evidenza cruda dei numeri: la disoccupazione, la povertà incedente, la crisi internazionale tra economia di guerra, ripercussioni migratorie e una risposta imprenditoriale che punta a delocalizzare, a chiudere interi comparti produttivi, a licenziare in massa centinaia, se non migliaia di lavoratrici e lavoratori. Riprendersi il destino, ridare all’Italia una speranza sociale che sia l’esatto contrario di quello che confindustriali, governativi e sindacati compiacenti vorrebbero spacciare per progresso, evoluzione, emancipazione e ricchezza generalizzata.

L’autonomia differenziata è fatta per i privilegiati e si mantiene anche di quelle norme antilavorative che i referendum della CGIL chiedono di abrogare. Tutto si lega, tutto si tiene. Per questo la risposta popolare deve essere compatta, di massa, chiara, netta e decisa. Votare a decine di milioni i referendum e dare una spallata a questa maggioranza che vorrebbe trascinarci indietro nel tempo: negando tutta una serie di spazi di libertà e di conquiste sociali che sono state conquistate con il sacrificio di intere generazioni.

MARCO SFERINI

13 dicembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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