La deriva autoritaria del governo che sovverte la Repubblica

Il Disegno di Legge 1660 sulla cosiddetta “sicurezza” rende evidente l’urgenza di programmare una seria, capillare e, per questo, efficace nutrita opposizione ad un insieme di norme che, tanto...

Il Disegno di Legge 1660 sulla cosiddetta “sicurezza” rende evidente l’urgenza di programmare una seria, capillare e, per questo, efficace nutrita opposizione ad un insieme di norme che, tanto prese singolarmente quanto nel loro più ampio spettro plurale, sono il costrutto di una definizione moderna, e al tempo stesso antica, di contenimento della critica, di repressione del dissenso, di manifestazione delle proprie idee con scritti e pratiche del tutto non violente.

Ma lo stesso concetto di “violenza” viene riconsiderato dal governo Meloni: che lo sia quella apertamente fisica, è ovvio. Che lo possa essere, ad esempio, la resistenza passiva in carcere (pratica del resto affine al ghandismo) o un sit in di protesta che blocca il traffico per qualche istante, è oggettivamente qualcosa di più della volontà di garantire l’ordine pubblico: è una vera e propria criminalizzazione della partecipazione e del diritto civico che la esprime.

Persino nella maggioranza iniziano ad esservi delle forti perplessità sulla costituzionalità di decine di provvedimenti su cui il Quirinale ha mosso eccepito rilievi e invitato alla prudenza istituzionale. La scrittura della norma fa della “violenza” un concetto ascrivibile a tutte quelle forme di opposizione che sono state, almeno fino ad oggi, tutelate come diritti sacrosanti, per fare altri esempi concreti, nel e del mondo del lavoro. Picchetti, scioperi, cortei potrebbero rientrare nella reità prevista da Meloni e Salvini.

Così come scritti di giornalisti, autori e anche volantini che invitano a promuovere e a riunirsi in queste forme di espressione della contrarietà tanto a provvedimenti dello stesso governo quanto dell’imprenditoria che licenzia indiscriminatamente: chi viene cacciato dal suo posto di lavoro e prova a difenderlo diviene un violento, mentre chi arbitrariamente dispone dell’esistenza altrui, sfruttandola prima a più non posso e poi espellendola dal processo produttivo, si muove perfettamente nella legalità e nell’eticità.

Chi occupa una casa sfitta o un locale abbandonato commette una violenza; chi si rifiuta di dare un appartamento ad equo canone e vuole specularvi sopra, come a Milano, dove per un monolocalino di appena quattordici metri quadri ad uso universitario si pagano anche settecento euro al mese!, rientra nella sfera di un virtuosismo di cui riesce difficile comprendere l’origine e la ragione. Il salto di qualità del nuovo DDL 1660 sta nell’aumentare le categorie reputate espressione del “disordine“.

Se, infatti, al concetto di “ordine pubblico” si associa quello di “sicurezza” (e viceversa), da questa commistione viene fuori un artificio tutto nuovo che, dal passato autoritario del nostro Paese, eredita la propensione (e il disegno che ne consegue) di incasellare i cittadini in settori ben precisi: dal militante politico a quello sindacale, dal migrante all’attivista ambientale, dal senzatetto allo studente che protesta contro le carenze dei servizi, le tasse alte, i percorsi formativi.

Il DDL 1660, nella sostanza, introduce una trentina di modifiche al Codice penale che, a loro volta, evidenziano una ventina di nuovi reati: in alcuni casi si tratta dell’estensione di sanzioni e aggravanti, in altri casi formulando illiceità del tutto nuove. Sono previsti fino a due anni di carcere per chi partecipa ad un blocco stradale, così come vengono letteralmente criminalizzate le proteste del tutto pacifiche messe in atto col proprio corpo oltre che con le proprie idee.

Non va meglio negli ambienti carcerari: le norme che meloniani e salviniani vorrebbero come nuovi Leggi del controllo sociale, civile e morale, trattano le donne rom, i mendicanti, i detenuti e i migranti come potenziali delinquenti. C’è una idea di fondo che, proprio perché nel DNA della destra postfascista e nel leghismo di nuova generazione neonazionalista, si invera palesemente nell’insieme del DDL 1660: alcune categorie sociali sono “naturalmente” portate a delinquere.

Come se le condizioni sociali ed economiche fossero soltanto un contorno e non le fondamenta su cui nasce, cresce e si sviluppa una marginalità in cui vengono lasciati a putridire i diritti e, di conseguenza, anche i doveri di esseri umani non considerati come cittadini ma, tutt’al più, come estranei al contesto: da allontanare in qualche modo. Cacciandoli dall’Italia, relegandoli in carcere, zittendoli. Compito del governo non è quello di separare la società in settori e stabilire chi ha diritti e chi non ne ha.

Ma è l’esatto opposto: estendere questi diritti, includere e mai escludere. Fosse anche solo cristianamente parlando, facendo appello ad un bimillenario senso di umanità che si ritrova nelle parole di Gesù di Nazareth, queste destre che si professano così tradizionaliste e devote nei confronti del cattolicesimo, ma ancora di più facendo appello alla Costituzione della Repubblica,  dovrebbero rimettere in discussione tutto.

Invece la maggioranza di Meloni e Salvini pensa esclusivamente ad un ordine che è compreso nell’azione di polizia e di pulizia e non, invece, nella eliminazione delle sacche malavitose e dell’arruolamento nel grande esercito della criminalità per tutta una serie di persone che sono a volte costrette ad imboccare una via delittuosa, avendo tutte le altre porte chiuse o sbattute in faccia. Qui il tema della povertà entra come un caterpillar nella cristalleria perbenista dell’ipocrisia istituzionale.

Se si mettono insieme i vari pezzi di questo mosaico, si potrà giungere alla realizzazione visiva di un disegno che oltrepassa la costituzionalità dei diritti uguali per tutti e li garantisce esclusivamente per chi può permettersi una vita non disagiata, un al di qua dalla povertà e dalla rassegnata mestizia data dall’indigenza sempre più crescente, facendo della socialità un privilegio per classi più benestanti e un lusso per quelle che scivolano nell’endemicità dell’abbandono ad una sopravvivenza irrecuperabile.

L’intero impianto della logica egualitaria, espressione dell’origina prima della Repubblica democratica, così bene espresso nella Costituzione, viene messo sotto attacco, perché non si consente a chi sta peggio di potersi far sentire per riuscire ad uscire dalla condizione di disperazione in cui si trova. Se il DDL 1660 divenisse Legge dello Stato, anche i lavoratori che decidono di occupare un reparto di fabbrica, di fare un picchetto, di scioperare, rischierebbero di essere trattati da criminali.

C’è una illogica logicità di smantellamento complessivo delle reti di garanzia sociale, di quello che un tempo avremmo opportunamente definito, in una crasi tra economia e politica, lo “stato sociale” che non era solamente un impianto a difesa dei diritti, per l’appunto, sociali, riguardanti il mondo del lavoro; di più, era la realizzazione dei princìpi della Carta del 1948 in materia di vera e propria possibilità di accesso ad una serie di servizi che volevano dare pari opportunità a tutte e tutti.

L’articolo 3 della nostra legge fondamentale, nel suo secondo comma, lo ha sempre molto bene sintetizzato: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Nella parola “partecipazione” non rientra soltanto il diritto di voto espresso passivamente, ma l’attività che ognuno di noi può, se vuole, esplicitare con pensieri e azioni, con la scrittura come con la parola, singolarmente o nelle forme organizzate. Ogni atto del governo che interviene in queste prerogative sovrane di un popolo che è “nazione” proprio perché si riunisce attorno ad un patto sociale, civile, culturale e morale, non può che essere altrimenti definito se non un atto dai tratti manifestamente eversivi.

Sovverte la Repubblica, sovverte le pietre angolari di un diritto che deve uniformarsi alla Costituzione e non alterarne il carattere primigenio su cui è nato il nuovo Stato dopo le rovine causate dalla guerra, dalla dittatura, dall’occupazione nazista. Sfibra il tessuto sociale, scomponendo il rapporto tra diritti e doveri e impone questi ultimi al di là di ogni correlazione con quelli umani, con il rapporto che lega le norme nazionali a quelle internazionali.

Non soltanto si è già creata una frattura di non poco conto con l’eccellente primazia del “reato universale” sulla gestazione per altri (la famigerata e anatemizzata GPA); non solamente si vorrebbe creare un altro unicum mondiale facendo della Repubblica parlamentare un “premierato” (impantanato, per fortuna, nelle pastoie delle mal scritte controriforme governative sull’autonomia differenziata e dei rapporti interni alla maggioranza).

C’è qui il tentativo di mantenere formalmente il diritto al dissenso negandolo nella sostanza. Quando ad un migrante impedisci di avere una sim card perché è “irregolare” come persona tra persone “regolari” fai qualcosa di più della repressione classica cui si assiste nel rapporto tra potere e piazza, tra chi governa e chi è governato. Quando a ciò si associa l’ampliamento dei poteri di polizia, il diretto controllo da parte dell’esecutivo di questo impianto di controllo e di repressione, lo Stato autoritario è pronto a prendere il posto di quello democratico.

La protesta deve salire, deve coinvolgere la maggioranza della popolazione che si riconosce nella Costituzione e che non ha votato questo governo che sovverte la Repubblica, che tutela i forti, i benestanti, i ricchi, i potenti e, di conseguenza, tratta gli altri come elementi di serie B, privandoli dello status di cittadini a tutto tondo e lasciando loro solo quello di comprimari in una società esclusiva. Fatta di pace sociale e non di conflitto, di dialettica tra le differenze, di valorizzazione delle stesse nel contesto del confronto civile.

L’opposizione al DDL 1660, per scongiurarne l’approvazione parlamentare, è, insieme alla lotta contro il premierato, l’autonomia differenziata e la riforma della giustizia, una parte importantissima dell’azione di preservazione delle libertà costituzionali, dei diritti tanto umani quanto civili e sociali. Non separiamo mai le lotte, cerchiamo di vedere in ognuna la spinta propulsiva per le altre. Fermiamo il disegno eversivo, fermiamo la deriva autoritaria di questo governo.

MARCO SFERINI

12 dicembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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