Il compatto sciopero di avvertimento che ha coinvolto nove stabilimenti su dieci della Volkswagen in Germania è una vera e propria risposta coscienziosa da parte delle lavoratrici e dei lavoratori nei confronti di una politica industriale volta esclusivamente alla navigazione a vista, al salvare il salvabile sacrificando le maestranze che sono, invece, l’industria stessa. Dal punto di vista padronale, la rimodulazione del numero degli effettivi al lavoro, prevedendo il licenziamento di almeno seimila operaie ed operai, è l’unica risposta possibile alla crisi del settore.
Una crisi che diventa strutturale: basta guardare ciò che accade a Stellantis e non solo in Italia. Le parole di Elkann la dicono lunga sulle prospettive del comparto dell’automobile nel contesto di una crisi economica globale che si riflette compiutamente sulla fragile struttura continentale europea: quell’invito a “superare insieme” le difficoltà non fa, naturalmente, il paio con gli eventuali dividendi che ne deriverebbero. Gli azionisti incassano milioni di euro, Tavares esce di scena con una liquidazione esorbitante e i salari dei moderni proletari invece restano al palo (nel migliore dei casi).
L’instabilità complessiva dei grandi Stati dell’Unione europea si sostanzia, quindi, nella verticalizzazione di una crisi che, soprattutto in vista dei mutamenti d’oltreoceano (la imminente nuova presidenza di Trump fra gli altri cataclismi politico-istituzionali in atto), viene valutata dal Fondo Monetario Internazionale come una delle meno gestibili degli ultimi decenni. I fattori di condizionamento degli indici di produttività, di espansione o contrazione dell’offerta come della domanda sono tanti e tali da impedire una previsione chiara sulle fluttuazioni capitalistiche in atto.
E se persino i guardiani del sistema non sono in grado di tamponarne le evidenti falle, difficile risulterà per i singoli governi nazionali fare anche qualcosa di solamente simile. Riduzione del salario e tagli degli organici sono, quindi, i metodi di risoluzione emergenziale che le dirigenze delle grandi multinazionali dell’automobilistica intendono mettere in atto per bypassare l’attuale stato di grave stallo e di precipitazione eventuale in un blocco ancora più duraturo degli effetti di un mercato oggettivamente saturo.
La grande prova di coraggio delle lavoratrici e dei lavoratori della Volkswagen inorgoglisce per la testimonianza attiva, per l’efficace, pronta reazione agli attacchi che il capitale muove contro il mondo del già ampio sfruttamento moderno per arginare le congiunture derivanti dalle crisi di sovrapproduzione, dall’economia di guerra (che dirotta risorse sugli armamenti e finge di non averne per il sostegno degli altri comparti logistici), dai fenomeni migratori che ne derivano, dalle destabilizzazioni climatiche.
Così liberisticamente concepito, il collegamento del reddito da lavoro alla produttività generale delle grandi aziende è un’arma a doppio taglio per queste stesse che, da un lato mettono in pratica una sorta di scala mobile al contrario e, dall’altro, sono naturalmente costrette a subire le giuste rimostranze delle lavoratrici e dei lavoratori innanzi alle riconsiderazione del monte salariale stesso e delle minacce (nemmeno tanto tali, perché già sostanzialmente decisioni prese negli alti piani dei vertici dirigenziali) di ristrutturazione dei comparti produttivi.
I redditi da lavoro sono soprattutto salario, per cui se si parla di diseguaglianze nei trattamenti tra settori aziendali dello stesso gruppo (basti pensare alle delocalizzazioni e alla ricerca del sempre minore costo del lavoro stesso) inevitabilmente si deve parlare di disuguaglianza dei salari. La crisi economica dell’automobilistica tedesca, italiana, americana e francese, a principale trazione dirigenziale tedesca per quanto riguarda la Volkswagen e francese per quanto concerne invece Stellantis, non può prescindere dalle ricadute che innesta nel sistema politico-istituzionale dell’asse stabilito tra Parigi e Berlino.
Per la prima volta dagli anni Cinquanta del secolo scorso, il rischio che la Francia e la Germania si ritrovino, allo stesso tempo, seppure partendo da premesse differenti, con due governi ad interim in questa fine di 2024, è sempre più prevedibile. Tanto le risposte liberiste degli esecutivi varati da Macron, quanto quelle pseudo-socialdemocratiche di Scholz, non hanno sanato le contraddizioni evidenti tra le disparità che sussistono tra le cifre destinate al recupero delle crisi dei grandi centri produttivi (inter)nazionali e l’economia prettamente di guerra.
Pur sapendo di non avere a disposizione nuove centinaia di milioni di euro per finanziare la guerra della NATO in Ucraina, il cancelliere tedesco promette a Kiev nuovi pacchetti di aiuti militari, lasciando le lavoratrici e i lavoratori della Volkswagen senza una evidente risposta sulla grave situazione che attanaglia gli stabilimenti dell’automobilistica e degli indotti che ne fanno parte.
Nel più complessivo quadro mondiale, queste instabilità sempre maggiori si inseriscono una trasformazione globale che guarda con preoccupazione alle minacce, almeno per una buona metà del pianeta, da parte degli Stati Uniti trumpiani (ma anche precedentemente bideniani) di egemonizzazione politica ed economica del mondo. La preoccupazione tanto dei democratici quanto dei repubblicani più conservatori e retrivi è il progressivo abbandono del dollaro, ad esempio da parte dei BRICS allargati alle potenze del Golfo Persico, come valuta di scambio e di calcolo del valore del debito.
I tempi degli accordi di Bretton Woods, quelli in cui era molto complicato per i capitali spostarsi da una parte all’altra del pianeta, sono ormai piuttosto lontani: l’economia statunitense di allora era sostanzialmente chiusa in sé stessa, impenetrabile alle influenze esterne e, per questo, nella condizione del bipolarismo da Guerra fredda, aveva la possibilità di agire con piglio imperialistico nei confronti di tutti quegli Stati e quelle zone del pianeta che stavano a metà tra i due poli. Si trattava di quella che gli studiosi chiamavano una “economia a pieno diritto“, riconosciuta per il profilo chiaro che metteva in campo.
Oggi quello stesso profilo è venuto meno con la multipolarizzazione del mondo nuovo, del millennio che apre scenari ingestibili, inimmaginabili per un capitalismo prepotente e arrogante – come quello dei Tavares, Elkann, manager Volkswagen e governi acquiescenti al pari dell’instabilissimo esecutivo di Michel Barnier. Dall’organizzazione economica con un carattere monopolistico – che Trump vorrebbe rieditare – deriverebbe un confronto-scontro apertissimo nei confronti di qualcosa come due miliardi e mezzo di salariati rappresentati (si fa per dire) da governi che amministrano (con tutti i limiti sovrastrutturali del caso) una ricchezza immensa.
Il livello di alienazione raggiunto dal mondo del lavoro oggi è talmente alto da avere conseguenze soggettive di impatto davvero indescrivibile: le ripercussioni sulla qualità della produzione sono indeducibili e si sommano al neopauperismo di larga parte della classe operaia e del precariato ipersfruttato a livello multipolare. L’esempio tedesco ed italiano dell’industria dell’automobile ne è la prova. Lo scippo dell’esistenza non si verifica solamente in fabbrica o, generalmente, nel luogo di lavoro, ma si amplifica con la depersonalizzazione che il mercato aggiunge ogni volta che impedisce il risparmio, la garanzia della vivibilità dell’esistenza.
La povertà incedente convive con i dividendi esorbitanti dei manager e con una economia bellica che, oltre a far dimagrire le voci di bilancio dei conti sociali dei singoli Stati, costringe a massive produzioni di armamenti costosi che non danno alcun vantaggio di medio o lungo termine nel flusso dell’economia tanto locale quanto globale. Un automobile dura nel tempo e permette la considerazione del valore diluito nel corso degli anni, quindi il godimento di un bene necessario. Ma un carro armato, una volta distrutto, non è più niente se non rottami con delle vite umane sciupate al suo interno.
Il passaggio successivo della lotta di classe del sindacato tedesco IG Metall è, se gli effetti dello sciopero di avvertimento non dovessero farti sentire, il blocco totale degli stabilimenti Volkwagen per almeno una giornata. Senza singhiozzi, turnazioni di blocchi; una risposta che, ad immaginarla in Italia, è qualcosa di più della “rivolta sociale” landiniana che ha ipocritamente scandalizzato il governo di Giorgia Meloni e gli esponenti della forze della maggioranza. Del resto, nemmeno la teorizzazione del “consumismo compensativo” oggi può avere un riscontro pratico: non fosse altro perché la domanda è sempre meno espansiva a causa degli effetti inflattivi e della riduzione del monte salariale.
Lavoratrici e lavoratori della Volkswagen, al di fuori della fabbrica, non possono essere appunto compensati, rispetto a processi lavorativi che non gli sono adeguati, con una facilitazione agli acquisti di prodotti immessi sul mercato ad un costo minore rispetto a quelli che l’economia di guerra esige. Il sistema entra, così, in una nuova cortocircuitazione che genera quell’imponderabilità manifestata dal Fondo Monetario Internazionale circa le previsioni del PIL mondiale. Il consumo compensativo, oltretutto, parte dal presupposto dell’abbassamento del costo delle merci e non dell’aumento dei salari: sarebbe in linea con l’attuale interpretazione liberista delle crisi.
Ma si trova davanti l’ostacolo della competizione tra più poli che gareggiano, globalmente, ad una ridefinizione dei disequilibri locali a tutto sfavore gli uni degli altri: la contesa mondiale è un rebus irrisolvibile al momento. Non è detto che il sistema capitalistico non trovi una momentanea via di uscita da queste impasse: ma quello che è certo è l’irrisolvibilità della contraddizione per eccellenza, l’accumulazione sempre più indiscriminata di ricchezze in mano di pochi e l’aumento delle diseguaglianze a dismisura in inversione proporzionale direttamente collegata. Nemmeno l’aumento della produttività, a questo proposito, è una garanzia di recupero delle posizioni pre-pandemiche e post-crisi del biennio 2008-2009.
La proposta trumpiana di autarchizzare l’economia statunitense si lega alla conflittualità generale e al disequilibrio indotto dalle tattiche di breve e medio termine dentro una strategia di più lungo spettro che punta alla competizione tra blocco occidentale e blocco dei BRICS. In questo quadro, piuttosto difficile da disarticolare cercando il bandolo della matassa da sbrogliare nell’immediatezza dei bisogni sociali urgenti, ogni lotta radicale del mondo del lavoro aumenta le possibilità duplici di recupero dei diritti e di soddisfazione delle esigenze primarie, così come accentua le contraddizioni del sistema.
La lotta delle lavoratrici e dei lavoratori delle grandi aziende del settore automobilistico, dalla Germania all’Italia, dalla Francia agli Stati Uniti parla all’intera grande popolazione mondiale dei salariati e degli sfruttati: la rivolta sociale è possibile perché è necessaria e non si può rimandare di un attimo. La catastrofe globale deve essere fermata. E non saranno certamente i grandi imprenditori, il Fondo Monetario Internazionale e le grandi banche a porvi rimedio. Solo chi ne patisce tutti gli effetti distruttivi può arginare la deriva e può farlo nell’interesse, davvero, di tutte e di tutti.
MARCO SFERINI
3 dicembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria