Canto XXV del Purgatorio. Dante e Virgilio continuano la conoscenza del poeta latino Stazio, vissuto nell’epoca degli imperatori della dinastia Flavia. Cagionevole di salute, con un tormentato rapporto tra la propria ars e il potere politico ed istituzionale, finisce a scontare i suoi peccati nelle cornici del secondo mondo dantesco per la sua troppa “prodigalità“. Questo abboccamento è l’occasione per il padre della lingua italiana per discettare del carattere dell’anima umana, metafisicamente e religiosamente intesa, ma non senza chiari riferimenti ad un rapporto intrinseco con la fisicità e la materialità dei corpi e dell’esistente.
«Apri a la verità che viene il petto; / e sappi che, sí tosto come al feto / l’articular del cerebro è perfetto, / lo motor primo a lui si volge lieto / sovra tant’arte di natura, e spira / spirito novo, di vertú repleto» (67,72). Disponiamo il nostro animo ad accogliere la verità che ci viene detta: in pratica non appena nel feto si è realizzata quella che potremmo definire l'”organizzazione” (parafrasando l'”articular” dantesco) del nostro cervello, nel quale trovano la propria sede tutte quelle funzioni che riguardano i sensi, lì interviene Dio (“lo motor primo“) che immette in tanta armonia naturale un nuovo spirito, ricolmo (“repleto“) di virtù.
Dunque, il padre Dante sembrerebbe affermare che, dato lo sviluppo di un corpo che deve ancora nascere, nel momento in cui il cervello si è formato come organo capace di ospitare la sensibilità del futuro essere vivente, in questo frangente l’ispirazione divina immette nello stesso la capacità del percepire tanto immaterialmente quanto materialmente. Ad una prima lettura parrebbe una distinzione un po’ scontata, classica, tra anima e corpo che si compenetrano e vivono in simbiosi perfetta fino al momento del nuovo disgiungimento, ossia la morte.
Ma il dibattito qui, nel corso dei secoli, è stato molto articolato e pieno di inciampi dialettici di autori letterari, di filosofi e di teologi naturalmente che hanno riconosciuto la complessità dell’argomento. Si intende: il tutto dando per scontati alcuni punti di partenza come l’esistenza di Dio e l’esistenza dell’anima come prodotto essenziale dello sviluppo armonico dell’essere vivente (e non solo umano). La linea di partenza della problematica duale, del rapporto tra queste due caratteristiche dell’umanità (e dell’animalità), è anzitutto la fisicità, la materialità dei nostri corpi.
C’è, dice Dante per bocca di Stazio, nel seme maschile una sorta di virtù attiva, vivente, insita come proprietà generata entro i cardini di una naturale armonia di cui Dio si compiace e che diventa quindi lo stato primordiale del successivo passaggio ancora più perfettibile: l’unione con l’elemento femminile. Il concepimento della vita è ad uno stadio sostanziale, di materia, ma porta con sé tutte le caratteristiche afferenti anche di un’ “anima vegetativa” (possiamo immaginarla come la vita delle piante, per l’appunto) che non ha percezione diretta di ciò che le sta intorno, ma tuttavia “sente“.
Questa sensibilità è passiva nel concretare comunque la “virtù attiva” di cui si faceva cenno poco sopra, ed è soltanto un primissimo passo verso la considerazione sempre più evidente di una ulteriore trasformazione: dalla vegetatività alla sensitività. L'”anima sensitiva” somiglia, quindi, all’istintività dell’animale propriamente inteso come fiera brutale, selvatica, anche feroce e indomabile. Qui l’intervento divino è immaginato (pensato e ritenuto possibile in tal senso) da Dante come elemento creatore dell’intelletto, della ratio, della capacità di interpretare l’insensibile e il sensibile.
Si potrebbe affermare che è proprio in questo istante, mentre il feto è ormai sviluppato in tutte le sue caratteristiche membra, che prende il via il cammino della conoscenza umana, della capacità di entrare in contatto con ciò che la circonda e di iniziare, dunque, il processo dell’apprendimento e dell’esperienza, seppure incosciente e inconsapevole; e forse, proprio per questo, un po’ freudianamente, non è azzardato affermare che il dottrinalismo dantesco non è poi così lontano dalle affermazioni scientifiche sulla capacità del feto di “sentire” (dalla ventitreesima settimana di gestazione) ad esempio i primi suoni.
Ma nel Purgatorio la questione dibattuta è più da occasionalismo delle antiche scuole di pensiero arabe che, molti secoli prima, ponevano il tema della condivisione dell’esistenza per anima e corpo in una unica entità, in una essenza reciprocamente permeabile dove l’interscambio delle esperienze sensibili delle membra arrivava al livello più concettuale dell’anima e dove, allo stesso tempo, si pensava a questa come ad un motore di ogni azione espressa sul piano fisico. La carezza fatta ad un bambino, quindi, è anche propria della mano che la fa, ma è anzitutto volontà della mente che la “vuole” fare.
Dalle lande più remote dell’Arabia si suggerisce, fino dall’XI secolo (dopo Cristo), che ogni manifestazione dell’armonia della natura non abbia una causalità a sé stante e che, quindi, esista una sorta di meccanicismo indotto nella medesima essenza dell’esistente, della materia in quanto tale; semmai si ritiene che tutto, per dirla un po’ agostinianamente, si trovi entro la volontà divina («Siamo, viviamo e ci moviamo in Dio»): potremmo parlare di un tentativo panteistico o cosmoteistico (quanto meno) di interpretazione del reale (di ciò che noi percepiamo come reale) di molto precedente al futuro, postcartesiano, occasionalismo seicentesco.
Differentemente da Averroè, che intende la materia eterna ma che nega l’immortalità dell’anima e, dunque, la separa dalla sua sede nell’intelletto e, conseguentemente, di questo nel cervello umano, Dante propone un livello di autocoscienza che è in parte frutto dell’esperienza vegetativa e animalesca nostra, e quindi più propriamente materiale, quanto dell’influsso divino che, qui proprio scendendo su un terreno squisitamente metafisico, è l’origine della proprietà fondamentale del nostro essere: la particolarità di ciascuno.
Nella sensibilità materiale, che si trasmette alla percezione immateriale dei sentimenti, e viceversa, sta il reciproco gioco di alternanze tra acquisizione della consapevolezza, del sapere, dell’abitudinarietà di azioni e reazioni che costituiscono la nostra essenza unica e irriducibile ad un prodotto preconfezionato e riproducibile in scala. Ognuno di noi, nei secoli e nei millenni, è qualcosa di veramente unico per tutte le interazioni che stabilisce in un preciso contesto storico, in un altrettanto preciso contesto familiare e così via. Pertanto, l’identicità è impossibile da riscontrare nella natura.
La somiglianza sì, ma l’identicità no. Nulla è perfettamente uguale a ciò che gli assomiglia. Niente è così molecolarmente perfetto da potersi dire che esistono due elementi perfettamente identici. Se così fosse il dualismo verrebbe messo a tacere da un unicismo che non permetterebbe nemmeno di porre il problema della perfetta identità, della perfetta uguaglianza tra due cose, tra due vegatali, tra due umani, tra due animali, tra due elementi naturali, tra due mondi. Qui si inserisce il dibattito occasionalistico sulla “sostanza“. Un concetto alquanto equivocato, soprattutto se vi si riferisce sul piano teologico (e teleologico).
La sostanzialità della sostanza, oltre ogni vezzoso gioco di parole, è il problema del rapporto tra la materia e il tema del creazionismo. Se anche Dio è “sostanziale“, la questione è: noi e il resto del “creato” siamo della sostanza del Padre, quindi rientriamo nella “generazione” (al pari di Cristo) e non nella “creazione“, oppure siamo altro, una sostanzialità che diverge da quella propriamente divina? Per i credenti non è qui in discussione la “presenza in Dio“. Per gli agnostici come il sottoscritto è in discussione un po’ tutto, ma ammettendo che Dio e l’anima esistano, l’arzigogolo si fa piuttosto interessante e ha il fascino del giallo irrisolvibile (poi quale, infatti, è).
Gli occasionalisti secenteschi e cristiani affrontavano la questione del rapporto tra le sostanze create e Dio con quello che tanti studiosi (da Lamanna a Geymonat) hanno definito un “orientamento mistico“. La “mobilità” della materia è ciò che ha interessato un filone gnoseologico dell’occasionalismo: i post-cartesiani mettevano al primo punto dell’elenco di dubbi che avevano la reazione pratica delle cose rispetto al contesto globale dell’esistente, dell’essere (Parmenide torna e ritorna sempre…). La moderna teoria dell'”effetto farfalla” (per cui anche il più piccolo mutamento di comportamenti può avere grandi influenze su ogni altro singolo comportamento e sul resto nel suo complesso) riprende un po’ questa originale disquisizione.
Ogni corpo esercita una azione se è animato, la produce perché la vita è movimento. L’inattività è propria di un sasso che, tuttavia, nel suo consumarsi grazie agli agenti atmosferici, in un lunghissimo periodo di tempo, esercita anch’esso una qualche forma di influenza su tutto ciò che lo circonda. Quindi, se ad ogni azione ne consegue un’altra, è evidente che la sostanza corporea non è propriamente attiva, di per sé, ma è indotta ad essere tale. Ciò vale, ovviamente, anche per il discorso della dualità tra anima e corpo: perché l’anima dantescamente e occasionalmente intesa, è induzione all’azione.
Mentre le sensazioni forniscono all’anima (ellenicamente potremmo definirla la “psiche“, il “soffio” che ci abita) elementi di costruzione della propria identità, consapevolezza e coscienza, questa a sua volta induce il corpo a muoversi secondo il rapporto che stabilisce con l’esterno da sé: l’attrazione o la repulsione per cose materiali o fatti immateriali affidati al giudizio etico; il desiderio o la ripugnanza nei confronti di una persona, di un animale, di un ambiente… Se tutto questo è insito nella dualità di cui stiamo parlando (anima e corpo), e se noi siamo – come del resto afferma anche un testo mitologico come la Bibbia – creati (non generati…) ad immagina e somiglianza di Dio, possiamo pensare all’entità suprema con le stesse nostre caratteristiche.
La risposta è “sì” se antropomorfizziamo Dio. La risposta è “non lo so” se rimaniamo nel perimetro dell’incertezza dettato dall’esasperante insistenza della metafisica in una dialettica occasionalista che, tuttavia, prova un qualche collegamento tra analisi materiale a concezione spirituale. Per convincerci che l’anima umana è realmente qualcosa di più della sua sola essenza percettiva vegetale o della ben poco lusinghiera fierezza feroce dell’animalesca interpretazione susseguente, Dante la esalta come “alma sola“, trina e una: perché soprattutto “ragionevole“. Viviamo, sentiamo e i noi “rigiriamo“, ossia pensiamo, ci arrovelliamo su noi stessi e su ciò che ci circonda.
«E perché meno ammiri la parola, / guarda il calor del sol si fà vino, / giunto all’omor che de la vite cola» (parafrasiamo: per non meravigliarti meno delle mie parole, osserva il calore del sole che si unisce all’umore della vite e diventa vino). Allo stesso modo l’anima ragionevole (razionale), unita alle altre due, sensitiva e vegetativa, diventa una sola essenza, una sostanza spirituale. La commedia è affascinante e incanta. Il dibattito anche. Ma dal filosofeggiare arabo al Seicento, per arrivare ad oggi, rimane l’inconoscibilità dell’anima stessa e il suo influsso sulla materialità del corpo.
A volte ci si consola ritenendo impossibile che tanta autoconsapevolezza e capacità di interrogarsi possa dissolversi nel niente o, semmai, nella semplice mutazione materiale dei nostri corpi in atomi che si disperderanno nell’Universo dopo la morte. La straordinarietà della vita è, per la nostra stessa capacità di comprensione, qualcosa che trascende la materia, che pare davvero avere delle qualità che, pur derivando da essa, si elevino al di sopra di un mero materialismo che, necessariamente, nega ciò che non può affermare ma che, così facendo, scivola in un ateismo che è profonda solitudine interiore.
Il fatto che non si possa dare un senso a tutto questo, non significa che non esista un senso che ci sfugge. Magari proprio perché l’incomprensibile è la regola e il comprensibile l’eccezione che sta in un microcosmo in cui siamo e in cui ci tocca rimanere senza poterci elevare a vette che, qualunque altezza si raggiunga, non svelerebbero mai il grande mistero dell’esistenza, dell’essere e del nostro esserci.
MARCO SFERINI
1° dicembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria