La conturbante eccentricità numerologica della scuola pitagorica

Pensiamoci un attimo, o anche più di un attimo. Ogni categorizzazione umana dell’esistente riporta, come è evidente dall’incipit di questo testo, alla misurazione mediante la numerazione che si può...

Pensiamoci un attimo, o anche più di un attimo. Ogni categorizzazione umana dell’esistente riporta, come è evidente dall’incipit di questo testo, alla misurazione mediante la numerazione che si può esprimere tanto matematicamente quanto per intuizione appunto con concetti come “prima“, “dopo“, “attimo“, “lungo“, “corto“, “breve” che sono adattabili tanto al tempo quanto allo spazio. La dimensionalità in cui viviamo è, mediante la nostra logica, interpretabile mediante un calcolo che è quindi una chiave di lettura capace di dare un ordine, una “armonia” al mondo, all’universo.

Pitagora e la sua setta (che, se proprio vogliamo essere benevoli, possiamo anche definire “scuola“) scoprono un “ordine misurabile” mediante la matematica (dal greco “μάθημα (máthema), il cui significato primo è “scienza“, “conoscenza“) che diviene uno strumento metafisico nel momento in cui la numerologia, anticamente intesa come espressione naturale dell’uno e del molteplice, non come moderna declinazione astrusamente magica, assume la postura descrittiva dell’armonia universale.

Lo stupore pitagorico, che è incommensurabile meraviglia per la geometria espressa dai fenomeni oggettivi, osservabili dall’essere umano autocosciente, si esprime nello studio delle “quantità” degli stessi piuttosto che di quelle “qualità” che erano state a lungo tempo il punto di passaggio dell’interpretazione filosofica degli antichi prepitagorici (e ovviamente presocratici): principio della natura delle cose, dell’essenza delle stesse e dell’essere in quanto tale è non più ricercabile in una manifestazione qualitativa della materia (dall’aria al fuoco, dall’acqua al freddo, dal caldo all’umido, e così via…), bensì quantitativa.

La mutevolezza delle forme e la trasformazione delle sostanze non è sufficiente ad eliminare o anche solo a mutare delle leggi, delle regole che si evincono dalla “misurazione” del particolare più apparentemente insignificante così come degli eventi che sembrano (e spesso sono) molto più grandi di noi in quanto a forza naturale e a capacità di cambiamento radicale di ciò che ci circonda e di ciò che siamo in questo mondo. Le qualità della materia non fanno altro se non rivelarci solo degli stati di apparenza e non ci portano vicini alla concretezza che è tendenza nei confronti della verità.

Pitagora ragiona in termini di fissità reale, di un qualcosa che prevale sulla composizione e sulla scomposizione di ciò che materialmente esiste: benché tutto cambi, nulla prescinde, almeno per quanto riguarda la nostra capacità di intuizione, di osservazione e di analisi, dalla misurazione: unità e molteplicità sono facilmente verificabili. E nell’unità è altrettanto facilmente constatabile la presenza della molteplicità. Non si tratta di un paradosso, ma uno può essere il nostro mondo, la Terra, con tutte le sue espressioni naturali.

Uno può essere un abitato in cui vi si trovano decine e decine di case. Una può essere una via formata da tanti segmenti separati da altre vie che vi si incrociano. Così come riducibile all’unità è tutto ciò che è distinguibile in quanto unico di per sé: ma unità ed unicità, per l’appunto, rimangono concetti e – se vogliamo dirla con Pitagora – misurazioni separabili ma non per questo ostentatamente e pertinacemente dicotomici. Tutt’altro.

Pitagora e i suoi seguaci affrontano con meticolosità argomentazioni filosofiche che sono sostenute dal calcolo, dalla elaborazione scientifica in quanto tale: in quanto approccio nuovo alla conoscenza. La metafisica del naturalismo pitagorico è la trasposizione di tutto ciò nella sfera (e siamo sempre, anche nelle metafore, nell’immaginazione mediante forme geometriche e, quindi, rimaniamo nell’ambito matematico) dell’interpretazione dell’essenza primordiale dell’essere del mondo.

Ma la forma, per quanto la materia possa cambiare, è insita nel prodotto della trasformazione e in essa stessa. Se una palla di sego si arriva ad un panetto parallelepipeidale, la qualità rimarrà pressoché inalterata, la forma sarà mutata ma tanto quella precedente quanto quella attuale saranno sempre ritrovabili in altri momenti e in altre situazioni del tutto naturali. Queste forme quindi, che sono misurabili e matematicamente descrivibili, non mutano, ma appartengono all’evoluzione dell’esistente.

La realtà, quindi, nella sua essenzialità, quella che possiamo chiamare “φύσις (phisys)” – ne conviene Pitagora – è riconducibile alla misurazione e ad una geometria dei corpi che, proprio perché inseparabile dalla originalità che esprime nell’evidenza oggettiva, riscontrabile con i nostri sensi senza infingimenti di sorta, assume i connotati del presupposto mistico dei una sorta di culto pitagorico che diviene fonte di un sapere che si erge a conoscenza quasi superiore rispetto alle credenze del suo tempo.

Ad un certo punto dello studio, il carattere sacro della matematica diviene evidente per chi scopre che l’ordine è misurabile e che la misurabilità, a sua volta, è ordine e non vi è caos, non vi è imprecisione, imperfezione, casualità; tutto risponde ad una forma espressiva dell’Universo che si invera di volta in volta in innumerevoli mutevolezze ma, per quanto differenti possano essere, riconducibili a precise figurazioni geometriche. Qui il numero diviene qualcosa di trascendentale proprio in senso magico.

Al numero Pitagora associa la capacità di regolare i fenomeni e di essere quindi esso stesso, in un certo qual modo, parte della materia, di avere una sorta di “spessore” ontologico, di non essere dunque un concetto astratto, una categoria dell’interpretazione umana dell’esistente, ma essenza dell’esistente stesso. L’ “ἀρχή (archè)”, il principio di ogni cosa, come già sottolineato poco sopra, passa dalla qualità alla quantità e, più ancora, nulla sfugge al numero che diviene principio di tutto.

L’armonia del cosmo è riconducibile ad una decina di coppie di opposti. Il numero 10 è la tetrattide (sempre dal nostro greco antico: “τετρακτύς” (tetraktýs), ossia numero quaternario, che per i pitagorici è davvero una sorta di entità divina: la stessa sequenza numerica ne dimostrerebbe la specialità armonica inconfutabile. L’1, il 2, il 3 e il 4 sono numeri prediletti che, se sommati, portano infatti a 10.

Il triangolo tettrattide è composto da dieci punti alla cui sommità sta quella che viene definita “unità fondamentale“, la “monade” in quanto indiviso per eccellenza, unità degli opposti.

Subito sotto, i due punti che troviamo sono proprio gli opposti che si complementano, il principio dei numeri pari e la formazione della linea. Il terzo livello, formato da tre punti, è la somma dell’unità fondamentale con la dualità complementare e quindi l’Uno e la Diade ed è anche, quindi, il primo dei numeri dispari. Infine, al quarto livello, i quattro punto della base (e dei lati) del tetraktýs rappresentano la solidità, la Terra, ciò su cui poggia armonicamente il tutto.

Dunque, l’armonia cosmologica, seguendo questo schema triangolare (il tre rimarrà per sempre il numero perfetto, nonostante a Pitagora e ai suoi allievi destasse maggiore fascinazione il dieci) si riscontra nelle seguenti coppie di fattori opposti in cui il primo di questi è categorizzato come “positivo” e il secondo come “negativo“: limitato e illimitato, maschio e femmina, dispari e pari, quiete e moto, quadrato e rettangolo, bene e male, luce e tenebre, destra e sinistra, retta e curva, unità e molteplicità.

Limitatezza, mascolinità, disparità, quiete, quadrangolarità, benevolenza, lucentezza, destrorsità, rettilineità e unità sono per Pitagora gli opposti positivi. Non è chiaro in base a quale logica sia stato affidato ad esempio alla femminilità il carattere di opposto negativo. Così come alla sinistra rispetto alla destra (potremmo dire che storicamente parlando, soprattutto nei secoli più vicini a noi, almeno politicamente è vero il contrario). Ma ci avventureremmo in un labirinto ludico che ci distrarrebbe dalla comprensione del fenomeno pitagorico a tutto tondo.

Va ricordato che per l’antica filosofia ellenistica e, in generale, per la percezione metafisica insita nel pensiero comune, la materia, l’esistente è sinonimo di eternità e non c’è nessun principio creatore, nessun dio che ha dato origine al mondo. L’essere è e non può non essere, ammonisce Parmenide. Ma gli antichi achei, così come gli Ioni e gli Eoli e i loro discendenti ateniesi, spartani, tebani, cretesi e micenei ritengono che prima dell’ordine armonico della natura vi sia stato un periodo di caos.

Pitagora prova a mettere un punto fermo anche in questo frangente: ovviamente riconduce al numero la capacità intrinseca di disporre questo ordine cosmologico, insito nell’essenza primordiale e aprioristica della materia. Il numero 1 è il prescelto, a cui viene dato un appellativo curioso: “parimpari“, né pari e né dispari e che costituisce l’inizio della misurabilità di tutte le cose, perché al niente non si aggiunge niente mentre all’essenzialità dell’esistente, alla monade si aggiunge altra monade e si costruisce l’ordine numerabile.

E alla fine della storia, o meglio al principio di essa, poco è importato che il discepolo ribelle Ippaso abbia tentato di decostruire l’imperturbabilità dell’assolutismo matematico e geometrico del pitagorismo: leggenda vuole che abbia tentato la fuga, probabilmente per l’ira della setta e del gran maestro, e che abbia fatto naufragio davanti alle coste di Crotone senza poter spargere altri veleni affermando che esistevano i numeri irrazionali. Se fosse stato colpito da una maledizione o, più semplicemente, dal tempo avverso è disputa affidata alla mitizzazione dell’intera parabola pitagorica.

Si può prescindere dai tanti lati oscuri della scuola di Pitagora e dalle bizzarrie che ci sono state tramandate sul suo conto, anche da biografi di un certo livello come Porfirio e Giamblico. Diversamente, non abbiamo fonti dirette che si cono arrivate da scritti del grande matematico e, pertanto, tocca affidarsi a loro o alle storie di Diogene Laerzio ed ai disordinati appunti di Aulo Gellio per sapere qualcosa in più del sistema tanto di potere quanto di sapere inaugurato da una mente sopraffina, da quello che oggi potremmo chiamare “genio e sregolatezza“.

L’innegabile fascino delle scoperte matematico-geometriche di Pitagora non costringe a mettere in secondo piano quella straordinaria intuizione sull’ordine numerabile dell’esistente, quindi sul mistero di una presenza di una logica preordinata, che prescinde dall’intervento dell’essere umano che di questa farebbe parte in quanto stadio complesso della materia che si è evoluta fino all’autocoscienza.

Come nell’osso di una pesca c’è già l’idea, l’essenza e la maturità prossima dell’albero che ne deriverà, una volta interrato e nutrito dal resto degli elementi naturali, così nella forma delle cose e degli esseri viventi vi è la forma che osservabile tanto geometricamente quanto matematicamente. Noi siamo composti da organi doppi e da organi singoli: abbiamo due occhi, un naso, due braccia, due mani, un cuore, un cervello (che consta di due emisferi); ed abbiamo due gambe, un pene con due testicoli, una vagina, due piedi e cinque dita per ciascuno degli arti periferici.

Ma siamo un essere, come gli altri animali. Siamo una unità nella molteplicità, un insieme di fattori che regolano la nostra vita fatta di fisicità e (apparente) incorporeità che ci abita: la psiche, il soffio di una animo che si esprime nella contemplazione delle cose, degli altri simili e dissimili da noi. E ciò che siamo, lo siamo nell’alternarsi dei giorni e delle notti, nel continuo avvicendarsi delle stagioni che obbediscono al moto del pianeta Terra intorno al Sole e agli altri astri.

Anche per un agnostico è difficile immaginare che tutto questo sia il frutto di quello che noi, in opposto all’ordine, chiamiamo “il Caso” (che è ben diverso dal “Fato“). Per quanto imprevedibile e incalcolabile sia, il Fato è, non fosse altro per derivazione etimologica latina, proprio “ciò che viene detto“, solitamente da un essere superiore, da un dio tanto nel politeismo quanto nel monoteismo. La casualità, invece, è qualcosa di imprestabilibile e non calcolabile, innumerabile.

Invece niente di casuale vi è tanto nella fisicità corporea quanto nell’animo umano. Pitagora nell’animo umano scorgeva una armonia proprio tra gli elementi contrari che ci compongono. Non credeva all’aderenza tra materialità e spiritualità, ma ad una trasmigrazione della nostra interiorità in altre vite. Il soffio che ci abita non era costretto anche dopo la morte del corpo a rimanervi imprigionato, ma vagava alla ricerca di un’altra esperienza. La metempsicosi, nonostante il suo carattere metafisico-religioso, qui viene, dalla scuola pitagorica, resa ovviamente compresa nell’ordine numerabile.

Questo excursus nella grande, misteriosa e anedottica eccentricità del Pitagora giunto fino a noi ci lascia una domanda tutta da indagare, degna della sua migliore tradizione ellenistica che ne è seguita: il numero ci appartiene o noi apparteniamo al numero? Si intrasente un’eco un po’ lontana che rimanda al rapporto tra noi, che siamo parte dell’esistente, e l’esistente stesso. Ed è proprio qui che, alla fine, si voleva arrivare…

MARCO SFERINI

24 novembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Il portico delle idee

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