Per oltre un anno le denunce delle organizzazioni internazionali che operano ai margini della Striscia di Gaza e nel Territorio occupato palestinese sono state ignorate dalla cosiddetta “comunità internazionale“. La condizione disumanitaria portata dal governo dello Stato di Israele con l’arrivo della guerra a tutto spiano, che ha reciso le arterie vitali della sopravvivenza di tutti i centri abitati del piccolo lembo di terra tra il deserto e il Mediterraneo, è stata minimizzata, giustificata con il presupposto della legale ritorsione per gli orrorifici fatti del 7 ottobre 2023.
Non c’è, anzi non ci sarebbe mai dovuto essere, alcun dubbio sul fatto che Hamas è un organizzazione terroristica, criminale, che è stata in parte anche creata da decisioni politico-tattiche dei governi israeliani per creare scompiglio nell’Autorità Nazionale Palestinese, dividerla internamente e creare delle condizioni di migliore gestione coloniale in Cisgiordania, separandone il destino, per l’appunto, da Gaza.
L’assassinio di oltre milleduecento persone, che vivevano nei kibbutz limitrofi alla linea di confine con la Striscia, ha sconvolto Tel Aviv e il mondo.
Poi Netanyahu, il cui consenso presso la popolazione rasentava il minimo storico di una lunga carriera rampantista le cui radici affondavano – secondo la magistratura israeliana – anche in poco chiari rapporti con affaristi privi di scrupoli nel considerare le fondamenta democratiche dello Stato ebraico, ha deciso di prendere la palla al balzo e ha creato, insieme al gabinetto di guerra, un conflitto totale, senza operare alcuna distinzione tra brigate Ezzedin al-Qassam e il resto della popolazione di Gaza. Il teorema omicidiario si è retto sull’assioma inconfutabile: i palestinesi sono tutti sostenitori di Hamas.
L’equazione molto banale, e di grande effetto propagandistico sull’onda della comprensibile emotività per le atrocità del 7 ottobre, era pressapoco la seguente: chiunque a Gaza conosce e ha a che fare con miliziani e dirigenti di Hamas. Dunque, nessuno è incolpevole, perché tutti sostengono il governo islamista della Striscia. Ergo, l’attacco va portato contro l’intera popolazione, nessuno escluso.
Nemmeno i bambini. Ne sono stati uccisi circa ventimila in dodici mesi di guerra. I morti di cui si conosce un numero approssimativo sono quasi quarantacinquemila. I feriti oltre centocinquantamila.
Dopo essersi aperto la strada fin dentro Gaza, Khan Yunis e Rafah, principali centri urbani da nord a sud, fino al confine con l’Egitto, l’esercito di Netanyahu e Gallant è penetrato fin dentro i più fibromialgici tessuti di reticolati di vie e piazze distrutte dai bombardamenti incessanti: il confronto tra le foto del prima degli attacchi e del dopo è impietoso. Le città palestinesi sembrano tutte delle Dresda moderne, annichilite, cancellate dalla faccia della Terra; umiliate in una devastazione che regala soltanto il luccichio dato dal grigio biancastro delle macerie sotto cui stanno migliaia di cadaveri.
Negli ospedali, per dodici lunghi mesi, non sono arrivate forniture mediche. Gli ordini di Netanyahu sono stati improntati all’assedio della popolazione, prima ancora dei terroristi di Hamas. Acqua, gas, luce elettrica sono venute meno. I rifornimenti alimentari sono stati bloccati e la popolazione è stata concentrata in aree cinicamente definite “sicure“, dove tuttavia ogni giorno i bombardamenti centravano più di una tenda e sterminavano intere famiglie scampate alla prima parte dell’offensiva di terra e di cielo.
Dal mare nessun aiuto possibile. La marina israeliana blocca qualunque passaggio e impedisce ai pescatori di andare con piccole imbarcazioni anche soltanto a poche centinaia di metri dalla riva.
La precaria vita dei gazawiti diventa un inferno: non ci sono più ospedali degni di questo nome. Scuole, università, luoghi di cultura e di culto: tutto è stato centrato dalle bombe. Ogni palazzo porta i segni del passaggio di Tsahal e nessuno è al sicuro. La fame porta alla morte migliaia di palestinesi che si spostano senza trovare più un posto in cui scrollarsi da addosso l’obiettivo che li marca.
Netanyahu e Gallant, ovviamente, negano di perseguire una politica di guerra che mira al ridimensionamento della popolazione palestinese e che, quindi, ha come obiettivo l’esilio forzato dal nord della Striscia verso il centro e il sud della stessa. Ma i fatti parlano chiaro, nonostante ai giornalisti e a qualunque mezzo di informazione sia impedito di documentare quanto avviene a Gaza. L’ONU viene trattato come una congrega di antisemiti e l’accusa di essere pregiudizialmente nemici del popolo israeliano/ebraico diventa la migliore, abusata arma di distrazione di massa dalle atrocità perpertrate.
Se qualcuno osa anche solo lontanamente mettere in discussione l’azione militare di Tel Aviv, l’accusa di essere un lontano parente di qualche membro del Terzo Reich è bella e pronta, supportata dai tanti amici del sionismo moderno che è tanto, ma tanto cambiato rispetto a quello delle origini.
La sua saldatura con l’impianto di una cultura occidentale della prepotenza, del dominio imperialista e del colonialismo più becero è, in qualche modo, il prodotto di una congiuntura novecentesca che si trasferisce nel nuovo millennio deformandosi e producendo conflitti che, invece, a rigor di logica storica avrebbe dovuto evitare.
La Corte Penale Internazionale, istituita con il Trattato di Roma nel 1998, ha, nella giornata di giovedì 21 novembre 2024, messo un punto fermo in merito al trattamento dei crimini contro l’umanità e di quelli guerra: ha, in un certo senso, rotto il tabù dell’intangibilità dei leader occidentali, soprattutto se si trovano in carica in funzioni di direzione di governi che stanno operando sul piano militare contro altri Stati, contro altri popoli. L’incriminazione di Vladimir Putin, da questo punto di osservazione, avrebbe lo stesso valore di quella spiccata col mandato di arresto per Netanyahu e Gallant.
Ma la narrazione in merito è molto differente, almeno qui in Occidente: la Russia è il contraltare, il nemico ormai per antonomasia e quello storicamente acclarato dalla Guerra fredda. Quindi, la separazione etico-politica tra forze del bene al di qua dell’Ucraina e forze del male al di là della stessa, impedisce volutamente una obiettività e una serenità di giudizio che, in quanto a intenzioni criminogene, mettano sullo stesso piano il presidente moscovita con i leader israeliani.
Una equiparazione non semplice e forse anche forzata dagli eventi: visto che, per quanto è dato sapere dai pochi dati che si hanno sui morti nella guerra nell’Est Europa, il tipo stesso di confronto bellico è differente. Si ipotizza che dall’invasione russa di oltre mille giorni fa fino ad ora siano morti più di mezzo milione di soldati russi e trecentomila ucraini. Difficile il conteggio dei civili che sono rimasti uccisi. Siamo nella zona di confine delle stime dell’una e dell’altra parte e la verità si saprà soltanto quando gli storici l’avranno potuta studiare a fondo dopo che la guerra sarà finita e non da breve tempo.
In Palestina, invece, dati i pregressi del conflitto quasi secolare, date le condizioni sul terreno (quindi la minore estensione del conflitto su un territorio oggettivamente di piccole dimensioni), è più immediata la constatazione degli effetti dell’offensiva totale israeliana.
Le immagini trasmesse dagli stessi palestinesi, divenuti giornalisti a loro insaputa per lanciare messaggi di aiuto alla comunità internazionale, così come i report delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative presenti a Gaza e in Cisgiordania, documentano la volontà israeliana di stringere attorno alla Striscia un assedio per inedia, per consunzione fisica della popolazione.
L’apertura dei nuovi fronti contro Hezbollah e, quindi, l’invasione del Libano meridionale, supporta la convinzione un po’ generalmente accettata che lo “scontro esistenziale” messo in atto da Netanyahu e dal suo gabinetto di guerra non porti ad un alleggerimento delle ostilità nei confronti di Gaza.
Una osservazione corroborata, purtroppo, dai dati di fatto: ogni giorni le bombe non risparmiano edifici civili ancora in piedi, sedi umanitarie che tentano di resistere; così come ciò che resta di ospedali da campo improvvisati e in cui manca l’essenziale, a cominciare dagli anestetici. Gli interventi chirurgici vengono effettuati tra atroci sofferenze dei feriti. Infezioni e malattie rischiano di diffondere epidemie che, insieme all’indigenza e alla fame spaventosa, sono uno degli effetti di quei crimini di guerra e contro l’umanità di cui la Corte dell’Aja incrimina il premier israeliano e il suo ex ministro della difesa.
Il mandato di arresto spiccato contro Netanyahu e Gallant non è un atto politico, come si affannano a ripetere i leaders dell’estremissima destra religiosa ipercolonica israeliana. È una conseguenza diretta delle indagini di una procura internazionale che ha considerato, date le prove raccolte, che a Gaza si stia consumando, se non un genocidio (termine su cui il dibattito è tutto aperto, anche alla luce delle denunce sudafriche sempre presso la CPI), quanto meno quella che Corrado Formigli a “Piazza Pulita” su La7 ha chiamato più propriamente una “pulizia etnica“.
Scrive l’Enciclopedia Treccani a tale proposito, che si tratta di un «Programma di eliminazione delle minoranze, realizzato attraverso il loro allontanamento coatto o ricorrendo ad atti di aggressione militare e di violenza, per salvaguardare l’identità e la purezza di un gruppo etnico». Evitando quindi qualunque speculazione di tipo politico, si può affermare con drammatica certezza che questo è quello che sta accadendo nella Striscia di Gaza ed anche in Cisgiordania: i palestinesi vengono indotti a lasciare le loro terre e a rifugiarsi in sempre più angusti spazi in cui la sopravvivenza, giorno dopo giorno, diventa sempre più impossibile.
Se, dunque, consideriamo, al pari di quella bosniaca ai tempi della guerra in Jugoslavia, la “pulizia etnica” come un crimine di guerra e, soprattutto, un crimine contro l’umanità, anche al di fuori di un conflitto più o meno dichiarato o messo in essere da uno Stato contro un popolo che non sia il suo, è evidente che nella definizione della Treccani sta la rappresentazione plastica di ciò che sta avvenendo nel Territorio palestinese occupato.
Netanyahu e Gallant sono, per la massima magistratura penale mondiale, dei criminali che vanno arrestati e quindi fermati nei loro intenti di annientamento delle organizzazioni terroristiche anti-israeliane che si rivelano essere invece politiche mirate all’omicidio indiscriminato dei civili. L’8 novembre scorso, un rapporto dell’ONU ha reso noto che, tra il novembre 2023 e l’aprile 2024, il 70% dei morti a Gaza era rappresentato da donne e da bambini. Sarebbe dunque questa la guerra per la “sopravvivenza” israeliana contro l'”asse della resistenza” capeggiato dall’Iran degli ayatollah?
I piani dei generali israeliani, di assediare la popolazione gazawita portandola alla morte per fame e sete e, quindi, i miliziani di Hamas ad una resa senza alcuna condizione (se ne stimano ancora parecchie migliaia tanto a nord quanto a sud della Striscia), sono condivisi dal governo di Netanyahu che rilancia contro la Corte Penale Internazionale, paragonando il mandato di arresto alla persecuzione subita da Dreyfuss nella Francia di fine Ottocento.
Una deformazione della Storia che, per chi la conosce, non fa che confermare la cattivissima fede di chi la pronuncia pensando di fare sempre e soltanto ricorso alla teorizzazione dell’antisemitismo universale come alibi per poter compiere qualunque azione al di fuori delle regole del diritto internazionale e in spregio a qualunque altro diritto fondamentale per ogni essere umano.
L’enormità dell’atto della CPI ha già avuto una serie di ripercussioni politiche sul piano dei rapporti tra Israele e il resto del mondo: chi continuerà a fornire armi allo Stato ebraico si renderà o meno complice dei crimini contro l’umanità e di quelli guerra contenuti nell’accusa che inchioda Netanyahu e Gallant alle loro responsabilità? La risposta immediata non sarà certamente la sospensione dei rifornimenti bellici da parte degli Stati Uniti e dell’Europa, quindi anche da parte dell’Italia. Ma si aprono interrogativi interessanti che mettono un freno alla indiscutibilità delle decisioni dei governi.
Soprattutto a quelle che riguardano le politiche espansioniste, coloniali, apartheidiche e imperialiste. Perché Netanyahu e il suo governo possono uccidere indiscriminatamente? Perché i palestinesi devono subire una pulizia etnica con un mondo che sta a guardare e si produce soltanto in qualche buffetto di timidissimo rimprovero ad un primo ministro israeliano che fa spallucce e irride i suoi stessi alleati e l’intera comunità internazionale? L’impunità dei decisori politici deve poter essere messa in discussione. E la Corte dell’Aja ha semplicemente fatto il suo dovere.
Netanyahu e i suoi ministri vanno fermati. Gli israeliani possono fare l’altra parte di questa pagina di storia: determinare la caduta del governo e mettere fine alla guerra contro il popolo palestinese. Senza dimenticare gli orrori di Hamas, ma cercando i veri colpevoli e assicurandoli alla loro giustizia. Così come il loro attuale primo ministro e il loro ex ministro della difesa devono essere portati all’Aja e lì giudicati con un giusto processo e senza quei comportamenti carcerari che lo Stato ebraico riserva ai detenuti palestinesi.
Nessuna tortura, nessuna violenza. L’altezza del diritto contro l’infima bassezza del criminale disprezzo del popolo palestinese, delle regole democratiche, del principio della Storia di uno Stato che può ancora esistere ma liberandosi di tutto il sudiciume bellico che si è riversato addosso adottando politiche suprematiste ai limiti del teocraticismo che tanto afferma di voler tenere lontano da sé stesso.
MARCO SFERINI
22 novembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria