Nel consapevole azzardo di Biden tutta l’ipocrisia democratica

La polpetta avvelenata. Potrebbe essere il titolo, un po’ maccheronico a dire il vero, di una apertura di quotidiano che intenda parlare del via libera dato da Joe Biden...

La polpetta avvelenata. Potrebbe essere il titolo, un po’ maccheronico a dire il vero, di una apertura di quotidiano che intenda parlare del via libera dato da Joe Biden all’utilizzo di missili americani di lunga gittata in territorio russo e di sdoganamento delle mine antiuomo come mezzo di contrasto dell’avanzata dell’esercito di Mosca su un fronte ucraino che cede giorno dopo giorno sempre di più.

La risposta di Putin non si è fatta attendere: l’aggiornamento del programma di intervento nucleare è un testo di cui si raccomanda ai leaders europei l’attentissima lettura… Come a dire: noi ve l’avevamo detto che non stavamo e non stiamo bluffando. Occidente avvisato, Occidente mezzo salvato. Ma la conseguenza di questa sconsiderata e cinica politica bellica è il sempre più alto livello di una asticella che segna l’approssimarsi di una guerra nucleare, di una vera e propria terza guerra mondiale.

Servizi segreti ucraini e fonti vicine al governo di Zelens’kyj riferiscono addirittura di un piano di spartizione della repubblica nata nel 1991 dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica: la regione di Leopoli verrebbe spartita tra Polonia, Slovacchia e Ungheria; l’Ucraina centrale diverrebbe uno Stato fantoccio della Russia e gli altri territori, quelli oggi occupati realmente dalle truppe del Cremlino, verrebbero a far parte direttamente della federazione putiniana.

Una ipotesi nemmeno tanto peregrina, anche se, stando ai fatti e alle dichiarazioni dello stesso Vladimir Putin, nonché del ministro Lavrov, un piano di pace sarebbe possibile solo alle condizioni russe e, quindi, partendo dal riconoscimento della perdita degli oblast conquistati, da una garanzia di esclusione dal contesto NATO per quanto riguarda il resto dell’Ucraina. Sembrerebbero essere questi i primi due imprescindibili punti per il raggiungimento di un cessate il fuoco, di una apertura di un tavolo di trattative.

Ma, al momento, la guerra imperversa e si muove nella direzione duplice della riconquista della porzione di regione del Kursk, nell’avanzamento del fronte soprattutto a sud-est dove la cedevolezza delle forze ucraine diviene sempre più evidente. Lo sgambetto bideniano alla prossima entrante amministrazione trumpiana è, oltre la tattica politica, uno schiaffo a quelle finte ragioni della pace che i democratici hanno sempre detto di voler perseguire e che, invece, nei fatti non intendono minimamente prendere in considerazione.

Chi ha suggerito all’ottuagenario, malato Presidente degli Stati Uniti una mossa del genere è quello stesso entourage di governo che ha corso per la Casa Bianca qualche settimana fa e che era pronto a prendere la guida di una superpotenza che inizia a constatare tutta la difficoltà di mantenere alto il livello di guardia nella guerra in Ucraina. Non è azzardato ritenere che i missili ATACMS, di fabbricazione americana, nonché quelli britannici, siano stati indirizzati sul territorio russo da personale statunitense.

Personale che, quindi, si trova in Ucraina e che agisce come parte di un esercito in posizione di difesa e di offesa al tempo stesso. Azione e reazione ormai si confondono vicendevolmente in una guerra in cui, dopo dieci anni di premesse belliche espletate nel contesto russofono del Donbass, il piano strategico nordatlantico di espansione ad est, fino ai confini di Mosca, ha forzato tutte le norme del diritto internazionale e ha provocato la reazione putiniana esacerbandone il già antidemocratico regime.

La gara a chi è meno afferente alle libertà civili si unisce a quella del rispetto di un ruolo delle Nazioni Unite che vengono, tanto nel contesto della guerra in Ucraina quanto in quello del genocidio in Palestina, costantemente prese in giro, derise, vilipese e trattate come un’escrescenza della politica internazionale, del diritto conseguente e dei patti che un tempo sembravano un perimetro di sacralità perenne dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale.

Il conflitto, dunque, entra o non entra in una fase ulteriore, esponenziale, in cui si contempla direttamente anche l’utilizzo di armi nucleari? Parrebbe di sì e ci si augura di no, naturalmente. Ma gli auguri lasciano il tempo che trovano, perché il confronto tra le superpotenze, nella fase del multipolarismo moderno appena iniziata, è una ineluttabilità di una riorganizzazione liberista globale in cui devono farsi largo gli interessi geopolitici ostacolati e oscurati fino ad oggi dal predominio statunitense.

Non si tratta solamente di constatare che i BRICS intendono essere una alternativa al dominio americano nel contesto dell’economia di mercato rafforzata e ritemprata secondo le linee direttrici delle polarizzazioni euro-asiatiche e mediorientali. Qui il punto che si mostra sempre più come fulcro del gigantesco problema della contesa mondiale è la ricerca di un equilibrio che permetta una sorta di riedizione di una guerra fredda in chiave moderna.

In sostanza, siccome la contesa è, in quanto tale, un conflitto permanente tra le varie opzioni del capitalismo liberista (statunitense, area BRICS, Europa e paesi in via di lento, lentissimo sviluppo), ciò che ci si può veramente augurare è la convergenza dei diversi interessi verso un punto di stabilizzazione delle guerre tanto da fermarle nella loro più cruda e crudele espressione: quella dell’attività. La passivizzazione degli scontri, quindi un cessate il fuoco permanente, potrebbe aprire una fase in cui le armi tacciono anche se restano pronte a riprendere la loro omicidiria funzione.

Indubbiamente, hic et nunc, le mosse dell’amministrazione americana da un lato e quelle di Putin e Kim Jong-un dall’altro, con in mezzo il gigante cinese a fare da garante nemmeno tanto silenzioso, delineano uno scenario di intensificazione degli scontri e, anzi, preannunciano un inverno durissimo al fronte e nelle lotte aree tra i droni che vengono ogni giorno lanciati, intercettati, abbattuti e che, qualche volta, colpiscono i loro obiettivi provocando ferimenti anche tra le popolazioni.

L’avvertimento di Mosca sul ritenere gli attacchi con armi missilistiche a lungo raggio un diretto coinvolgimento della NATO nella guerra che dura da mille e più giorni, è stato platealmente snobbato dall’Alleanza atlantica e da Washington: non si tratta nemmeno più di gettare la maschera del finto pacifismo, della finta volontà di preservare una democrazia che in Ucraina non c’è quasi mai veramente stata. Il passaggio obbligato è quello che da sempre realmente stato: spingere la Russia ad aumentare la conflittualità e provare ad espandere così il militarismo a stelle e strisce.

Dove di preciso? Nell’intercapedine rappresentata proprio dall’Ucraina, strattonata da ovest e da est come cuneo da inserire nell’uno o nell’altro contesto di uno sviluppo moderno sempre più velocemente mutabile e sempre meno garanzia di supremazia unipolare. Dal canto suo, Giorgia Meloni, sorridente insieme all’iperliberista presidente argentino Milei, promette finanziamenti e invio di armi a Kiev anche per tutto il 2025, senza un previo, necessario, passaggio parlamentare e senza nemmeno aver riunito il governo.

Trump sembra andare nella direzione opposta, non per una illuminazione pacifista sulla Prospettiva Nevskij, ma per allontanare la sua amministrazione dalle grane di un conflitto che non ha mai veramente coinvolto gli americani che lo percepiscono come qualcosa di estraneo al loro mondo, oltre che di geograficamente molto lontano.

Si potrebbe dire lo stesso della guerra di Gaza: ma qui l’opinione pubblica della Repubblica stellata, anche per la presenza di vaste comunità ebraiche e palestinesi negli USA, si polarizza, diverge e apre un dibattito che dà adito a grandi manifestazioni.

Quindi, la questione ucraino-russa, se facciamo un rapido excursus nelle dinamiche avvicendatesi in questi ultimi mesi, sarà risolvibile solamente se Trump e Putin decideranno di mettere fine alle ostilità, nonostante la superfedeltà europea alla NATO che si esprime nell’aumento delle risorse nazionali nei bilanci statali per finanziare l’aumento delle produzioni di armi e l’invio di queste a Kiev.

L’aggiornamento, poi, del “Foundations of State Policy in the Field of Nuclear Deterrenc” introduce come elemento chiave e di svolta la risposta russa agli attacchi sul suo territorio. In particolare, è scritto nel documento che i leaders europei dovrebbero imparare a memoria, Mosca si premura di rispondere nuclearmente a qualunque offensiva sia portata contro la Federazione anche «da uno da uno Stato non nucleare se portato a termine con il sostegno di una potenza nucleare».

Prova ne è che, mentre si scrivono queste righe, arriva la conferma che dalla regione meridionale di Astrakhan è stato portato un attacco contro la città di Dnipro con missili balistici (che possono contenere testate nucleari) da una lunghissima gittata. È un ammonimento, una risposta agli attacchi ucraini con i missili americani e britannici. Ma è, soprattutto, il primo passo per quell’escalation del conflitto che, quindi, è assai improbabile che possa risolversi con l’insediamento della presidenza Trump nei prossimi mesi.

Oligarchi, megalomani, visionari miliardari che negano tutto e il contrario di tutto. E poi, destre estreme che fanno del liberismo l’unico terreno di confronto tra mercato e Stato, piegando quest’ultimo, secondo la dottrina dei Chicago boys, alla dettatura programmatica della finanziarizzazione a tutti i costi dei diritti umani, di quelli sociali e civili. Il mondo, sul finire di questo 2024, esce più abbruttito, più criminogeno, ecoinsostenibile e disumano rispetto a dodici mesi fa.

Dall’alto della Statua della Libertà, sotto al cielo tanto di New York City quanto dei Washington, non va meglio nemmeno per la guerra a Gaza e in Libano. Bernie Sanders propone tre risoluzioni per la cessazione dell’invio di armi ad Israele e, ovviamente, i democratici bocciano le mozioni della sinistra socialista interna. La maggioranza è schiacciante: settantanove voti contrari e soltanto diciotto a favore.  Il Senato americano non ha dubbio alcuno: la questione palestinese va risolta con piena delega al governo criminale di Netanyahu.

Delle violazioni del diritto internazionale se ne fanno beffe le amministrazioni tanto del tanto elogiato Occidente democratico così come quelle delle oligarchie e dittature conclamate dell’Est e del Medio Oriente, nonché dell’Asia. Finiscono tante epoche in questo scorcio di fine anno: quella di un’America formalmente ancorata ai princìpi della sua Costituzione plurisecolare; quella di un’Europa in grado di diventare qualcosa di più di un semplice aggregato bancario e borsistico; quella di una globalizzazione che cercava ancora luoghi dove potersi espandere.

La colonizzazione del mondo se non è completata, poco ci manca: ora si aprono nuove stagioni disastrose per una umanità che subisce il decisionismo di gruppi dirigenti asserviti, oggi più che mai, ad un potere economico e finanziario che va direttamente al governo: Elon Musk ne è un esempio abbacinante. Sembra saltare persino lo schema marxiano tra struttura e sovrastruttura perché pare farsi largo una sostanziale coincidenza tra i due piani economico-socio-politico-culturali.

La rivoluzione della grande industria multinazionale e multilaterale è iniziata. Le guerre proseguono e il risiko pure. Il gioco cinico tra i contendenti va avanti indefessamente, privo di qualunque stop etico, di ripensamenti, di dubbi, di tergiversamenti. A morire sono i popoli, mentre i profitti crescono e le risorse naturali si impoveriscono. C’è chi pensa che la democrazia abbia un prezzo. Ma ormai chi se la compra più, visto che la si può rubare, esportare e spacciare per regime veramente libero un po’ ovunque: soprattutto là dove si fa la guerra o dove la si dirige per procura?

MARCO SFERINI

21 novembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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