Mettetevi comodi, in un angolo non troppo rischiarato dalla luce del giorno. State accucciati dove meglio vi sentite protetti o, forse, dove percepite di essere meno minacciati. Il cuneo tra due mura è il rifugio per eccellenza: l’incontro delle rette crea lo spazio angusto ma, paradossalmente, mette a disposizione un punto preciso in cui si può quanto meno avere la sensazione che minacce da due lati non arriveranno intrusi, non sopraggiungerà niente e nessuno che in un qualche modo ci dia noia, tormento e aumenti la già precaria condizione psico-fisica in cui sopravviviamo.
Se siete comodi, ovunque voi siate, possiamo ora provare a chiudere gli occhi e fare un esercizio di immaginazione. Possiamo creare nella nostra mente esattamente un tempo, uno spazio che prescindano dal mondo in cui viviamo. Possiamo trasportarci lì e vivere qualche momento oltre il presente, in una distopia che nel buio più recondito di noi viene fuori, emerge con dolcezza e ci parla dal più profondo che è invisibile agli occhi della mente diurna.
Così, nell’abbandono, nella assenza di perché, percome, quando, dove e chissà, riprendiamo per mano l’ignoto che ci abita e che ogni giorno ci condiziona mentre siamo vigili, avviluppati dai ragionamenti, dalle precostituzioni mentali, da concetti e supposizioni, da paure e problemi che ingigantiamo credendo che siano le nostre ansie interiori a produrli, mentre invece proprio quelle sono la spia del nostro disagio e, insieme, il messaggio che qualcosa non va e che dobbiamo cambiare viatico.
Ma, purtroppo, spesso e volentieri, istintivamente, obbedendo al nostro IO ci reprimiamo, perché non dobbiamo sfigurare in pubblico, perché è necessario apparire piuttosto che essere e quindi soffochiamo la voce dell’inconscio, del nostro invisibile, eppure percepibile, oscuro e ingiustamente considerato misconosciuto segreto del profondo che ci abita e ci appartiene, che ci vive e ci fa vivere. Che ci resiste ma che, al tempo stesso ci fa resistere. L’uomo del sottosuolo di Dsostoevskij non fa che lottare contro sé stesso.
Lo confessa ma non per confessarlo. Lo smentisce ma non vuole veramente smentirlo. Lo ammette ma dubita persino del suo sì così come del suo no. Si è trovato un angolo buio in cui situarsi per sfuggire alle proprie contraddizioni che gli pesano come macigni tantaliani su una schiena di quarantenne che non sopporta il vivere così: nella solitudine dell’IO in un mondo dove l’ES sembra smarrirsi e, pur essendo la natura voce interiore di ognuno, non riesce a trovarsi a suo agio nel qui presente dove si ritrova come assente.
Le “Memorie dal sottosuolo” (Rizzoli, BUR, 2000) sono un torrente di confessioni, uno sfogo intimo che urla a sé stesso l’insopportabilità dello stare là nel profondo di un rifugio in cui non c’è vero scampo da quello che accade intorno. L’io narrante lo sa e, per questo, non si ferma un secondo nel vomitare addosso al lettore tutta la sua rabbia ma anche la sua rassegnazione che, tuttavia, si ribella incessantemente a sé medesima perché non vuole completamente cedersi e pretende un minimo riscatto. Non fosse altro dare un briciolo di significato ad una esistenza incolore, cinica, forse pure un po’ barbarica.
La soddisfazione sta nel riconoscere le proprie angherie, rivolte in gioventù a chi lo trattava con sufficienza, a chi lo faceva sentire, seppure fosse inconsapevole di trasmettere questa sensazione, come inferiore, generando in lui una sequela di sensi di colpa impossibili da far tacere. Ma qui sta anche il castigo che l’uomo del sottosuolo si infligge: per catarsi laica, visto che il suo sguardo non è rivolto ad un perdono ultraterreno ma alla sempre presente constatazione della finitudine di una esistenza sentimentalmente sciatta, penosamente trascinatasi nelle convulsioni che gli venivano dai suoi comportamenti odiosi.
L’IO sa di essere prigioniero delle convenzioni e dei trattamenti sociali che fingono addirittura di essere capaci di asocialità (non di anti-socialità), ed è per questo che cerca rifugio nel sottosuolo che, tuttavia, non è assimilabile all’ES, all’inconsapevole atavico che si tiene nell’ombra delle profondità cavernose dell’animo come soffio dell’essenza più intrinseca e genuina della nostra particolare unicità. Lasciarsi, quindi, cadere nella pigrizia, in una ricerca di atarassia che, anche per poco, permetta di diminuire il tasso alcolico dell’agitazione, delle pulsazioni cardiache, dell’intrattenibilità delle colpe e dell’aumento delle imperfezioni.
Gli spigoli sono il contrario degli angoli in cui ci si rifugia, ma sono anch’essi angolazioni da cui si può incontrare l’esistenza o dentro cui si può andare a sbattere, considerando le abiezioni degli esseri umani, la loro amorfa antipatia che si autogenera nella melma dell’invidia; la loro ultramillenaria storia di guerre, omicidi, violenze cainiche, sadismi e gioia nel veder soffrire l’altro da noi. Provandone godimento. Il piacere dell’uccidere, il piacere del veder contorcersi le membra di un altro simile o di esseri viventi che cadono a terra colpiti da un fucile.
L’uomo del sottosuolo non ha nessun rispetto di sé stesso. Così dice. Ma se così fosse, metterebbe fine alla sua esistenza; oppure cesserebbe di scrivere le carte su cui verga un ego che non è a dismisura solamente perché non è mai riuscito veramente ad essere altamente egotico. Le sue domande sono quelle, un po’ retoriche e scontate, che ci facciamo tutte e tutti ogni giorno quando cerchiamo un perché alle più becere parole e azioni dei nostri simili e di noi stessi: da Cleopatra che adorava infilzare con degli spilloni le carni delle sue serve fino alle coeve guerre di cui l’autore legge le cronache e di cui prova orrore.
L’animo straziato dell’IO è la condanna della coscienza a non darsi del tutto per vinta: a penetrare entro un mondo inabitato da sé stessi per cercare una via di riscatto e, pur sapendo di non essere immune dalle brutture esterne, farsi carico del tentativo di sfuggirne, di separarsene e di uscire dal sottosuolo per guardare la luce dell’esistenza e dell’esistente senza rimanerne continuamente accecati. Come da una colpa inemendabile, da un peccato originale che è un grande senso di colpa che trapassa i secoli, che percuote le vite per farle sentire in debito perenne ed impedirne realmente il godimento.
L’uomo del sottosuolo digrigna i denti per spaventare, per sconfiggere la sensatezza degli altri, per introdurre un elemento di singolarità che staglia sulla quotidianità banale del giorno la domanda se poi, in fin dei conti, si possa attribuire alla razionalità una funzione disvelatrice della verità, dell’oggettività come premessa per la conoscenza di un significato da attribuire alla parte e al tutto. L’interrogativo seguente, a cui segue una immediata risposta, è: «…poniamo che l’uomo non sia stupido… ma se pure non è stupido, è tuttavia mostruosamente ingrato! Ingrato in modo fenomenale».
Parlare di sé stessi è trascendere il tradimento del pensiero, è oltrepassare la voglia di mentire sapendo di farlo e provandone piacere. Ma, nonostante questa coscienza, l’essere umano gode addirittura del proprio mancato godimento, lo anela, lo cerca, lo insegue e a volte lo rifugge proprio per poterlo nuovamente rincorrere… Una bramosia di possedere la pietra filosofale dei sentimenti e dell’essenza primordiale di quel noi stessi che ci sfugge e che di cui non troviamo un appagamento nemmeno nel positivismo scientista, nella capacità cerebrale di espandere la conoscenza dipanando lciò che prima ci era ignoto.
Riproponendo vecchie bibliche proposizioni, l’io narrante si chiede se l’aumentare il proprio sapere è parimenti aumentare il proprio dolore. Smentisce in parte Spinoza, senza saperlo (o forse sì…), e riporta su un terreno di arido para-vittimismo la condizione di infelicità che è costretto a darsi per poter sopravvivere al di sotto della vita che procede in superficie. Nell’intimo non può nascondersi all’infinito e non può affermare, pur pretendendo per sé stesso questo precetto, di trovarsi nel migliore dei mondi possibili. La fede, del resto, non gli è di conforto, perché il tradimento del Vangelo gli è evidente.
La Chiesa ha mosso nella direzione di una volontaria anestetizzazione delle pulsioni esistenziali umane e ha fatto del messaggio cristiano un potente narcotico, una clava con cui gestire le inquietudini, sottoponendo al giudizio inquisitorio dell’angoscia permanente di ogni individuo tanto la certezza nella pura razionalità scientifica quanto l’indeterminatezza favolistica della metafisica di ogni tempo. La schiavitù determinata dall’ignoranza pretesa dal clericalismo è un altro segno del disfacimento delle potenzialità umane.
L’uomo non è stupido – sostiene Dostoevskij – ma scivola sul piano inclinato di una ingratitudine: prima di tutto nei confronti di sé stesso. Se ne avvede e continua in quello che riesce sempre più difficile valutare come “errore“, tanta è l’aderenza che l’essenza dis-umana prova nei confronti della difformità dal vero in quanto fatto. La seconda parte delle “memorie” dell’uomo del sottosuolo sono le vicissitudini della gioventù. Particolarmente impressionante è il suo rapporto con la prostituta Lisa dove le parole e i silenzi si alternano e sono ugualmente importanti.
L’infelicità di lui è compresa da una lei che lo ama sinceramente. E proprio questa sincerità è il passaggio dall’illusione alla comprensione di una sorta di anaffettività che, tuttavia, nel provare pena per sé stessa non è scevra da empatia, ma fa molta fatica a riconoscersela e a concedersela. Il senso di colpa per le cattiverie perpetrate gratuitamente è emblematico nell’essere la quintessenza della memoria messa per iscritto. Perseguita tanto l’uomo del sottosuolo quanto l’io narrante e non li abbandona veramente mai del tutto.
Questa straordinaria opera introspettiva di Dostoevskij è un capolavoro di irrequietezza dell’animo, di voglia di far sapere quanto si possa comprendere la vita nel non comprenderla affatto. Amare, alla fine, è il cortocircuito verbale attorno a cui ruota una storia dove Lisa dimostra che la conoscibilità di sé stessi, per quanto superficiale possa dimostrarsi, è possibile. A costo di molte sofferenze. Come la separazione dall’uomo che la maltratta ma che lei ama. Siamo sempre nel senso di colpa e non se ne esce. Così è difficile, infatti, uscire dal proprio sottosuolo. Tutti ne abbiamo uno, anche se magari abbiamo fatto finta di non vederne l’ingresso.
MEMORIE DAL SOTTOSUOLO
FËDOR MIHÀJLOVIC DOSTOEVSKIJ
RIZZOLI, BUR, 2000
€ 9,00
MARCO SFERINI
20 novembre 2024
foto: particolare della copertina del libro
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