Ai tempi dell’università imparavamo sui manuali di diritto costituzionale che una delle prerogative dello Stato è il monopolio della forza: per la gestione dell’ordine pubblico, per le disposizioni magistratuali nei confronti dei rei, in qualunque momento e dovunque fosse necessario. In questa caratteristica, essenziale nella definizione del concetto di “sovranità“, lo Stato riscontrava il suo significato di “potere” nella declinazione più comune e, quindi, più direttamente comprensibile alla maggioranza delle persone.
Nessuno ha, singolarmente e collettivamente, le facoltà proprie dell’insieme delle istituzioni che si uniformano ai princìpi costituzionali e che vanno a formare, nella loro completezza, il carattere democratico della Repubblica. Se, da un lato, questa immediata comprensione della correlazione tra “potere” e “forza” rende sufficientemente chiaro cosa significhi avere l’esclusività dell’esercizio dell’ordine nella comunità nazionale (e locale) , dall’altro lato può rischiare di diventare l’unica interpretazione.
Questo vizio di forma deriva, in pratica, dalla facilissima identificazione tra muscolarità propriamente fisica da cui deriva la forza e l’esercizio della stessa nella pratica quotidiana del mantenimento di un ordine pubblico che, sovente, quando si tengono manifestazioni, cortei e presìdi di protesta e contestazione, si trasforma in repressione del dissenso, in contenimento degli spazi di agibilità democratica, in esecuzione pronta e tacita degli ordini del potere che la dirige.
Siccome né la magistratura, né il Parlamento hanno questa prerogativa, non resta che concentrarsi sul ruolo del governo, proprio perché “potere esecutivo“: che esegue, che mette in pratica, che determina le condizioni affinché le norme siano applicate nella realtà quotidiana. Ed è proprio qui che la confusione può dare adito alle interpretazioni più disparate, lasciando intendere che la violenza e la forza siano distinguibili a seconda da dove proviene l’una e da dove nasce l’altra.
La legittimità della forze nella repressione della violenza non è escluso che sia essa stessa violenza. Ma, spesso e volentieri, siccome le forze dell’ordine fanno parte delle istituzioni e garantiscono l'”ordine“, ciò significa, almeno in un uguale e contrario capovolgimento semantico, che dall’altra parte, quella dei manifestanti, c’è una potenzialità di nella libera manifestazione del pensiero, della critica e del dissenso che si può trasformare in disordine. Non che non sia vero, ma questo vale, oggettivamente, anche per quelle forze che, per antonomasia, sono “dell’ordine“.
Tutto dipende da come un governo intende gestire il cosiddetto “controllo della piazza“: se esiste a monte un pregiudizio politico, una disposizione pretestuosa e prevenuta, allora gli indirizzi date a polizia, carabinieri e altri corpi dello Stato saranno di un certo inequivocabile tipo. Un esempio tra tutti fu quello delle giornate del G8 di Genova in cui fu sempre più chiaro a tutti, persino ai più critici nei confronti dei movimenti no-global, che la regia del governo era stata allora impostata nella ricerca della provocazione, dell’incidente per costruire la narrazione degli antagonisti violenti.
Il copione si ripete, seppure con modalità, tempi, proemio e messa in scena dell’assoluto rispetto formale del quadro costituzionale dei diritti diversi da quelli di ventitré anni fa: a Genova ogni garanzia civile, ogni tutela fu completamente sospesa, negata e qualunque diritto prettamente umano venne vilipeso in una generale irrisione che echeggiava dapprima nei corridoi della Scuola “Diaz” e poi nelle stanze spoglie della caserma di Bolzaneto.
Nelle manifestazioni di piazza, soprattutto in momenti in cui la multicrisi della modernità liberista attanaglia tasche e coscienze, si incontrano due esigenze che non dovrebbero necessariamente essere opposte: il tutto dipende dai comportamenti e dalle disposizioni reciproche. Delle piattaforme rivendicative da un lato, degli ordini ministeriali dall’altro impartiti agli organi di sicurezza. I giovani studenti, i lavoratori, chiunque scenda nelle strade per esprimere il suo disappunto, la sua contrarietà alle politiche del governo dovrebbero incontrare dall’altra parte la garanzia di questo diritto alla libertà di espressione e di partecipazione sociale.
La polizia dovrebbe, quindi, presidiare e intervenire solamente se vi sono pericoli per l’ordine pubblico. Nella maggior parte dei casi, purtroppo, le tensioni esasperano il clima che entra in corto circuito in cui finiscono per avere la meglio pochi veri violenti sul resto di interi cortei invece pacifici. Non vi sono nemmeno più i servizi d’ordine d’un tempo che, organizzati dai partiti, dalle associazioni studentesche, dai sindacati e dai collettivi autonomi, si frapponevano tra i partecipanti e le forze dell’ordine, così da evitare il contatto diretto isolando preventivamente i più esagitati.
Lo scopo era duplice: impedire la degenerazione della violenza verbale in fisica ed evitare di dare qualunque pretesto a chi in quel contesto esprimeva il monopolio della forza di poterlo esercitare indiscriminatamente, rivendicando oltremodo la giustezza dell’azione. Una certa cautela l’hanno avuta i governi più afferenti ai valori democratici e progressisti della Costituzione. Una maggiore disinvoltura nella concessione della carta bianca alle forze dell’ordine invece l’hanno permessa, alimentata e coltivata gli esecutivi reazionari e conservatori, quanto anche si fregiassero del titolo politico di “liberali“.
La violenza, da cui siamo partiti al principio di queste righe, deve essere sempre condannata. Indubbiamente. Anzitutto perché fa perdere la bussola delle vere ragioni socio-politico-economiche per cui si scende in piazza. E poi perché è, a prescindere, un comportamento nocivo alla dialettica tra popolazione e istituzioni: si smarrisce il messaggio che si vuole veicolare e che deve trovare il più vasto consenso possibile nella popolazione se lo scopo della manifestazione è quello di farsi sentire e di coinvolgere cittadini e cittadini nel supporto di una giusta causa che li riguarda.
Però, deve essere detto, scritto, ripetuto, non esiste soltanto la violenza fisica (tanto quella dei manifestanti che si scagliano contro la polizia quanto quella di quest’ultima che massacra di botte giovani, operai, indiscriminatamente, per ordine del governo che intende reprimere il dissenso) ma molti altre tipologie di violenza hanno cambiato radicalmente il modo di intendere la reciprocità dei rapporti oggi.
A queste forme di violenza si attribuiscono oggi denominazioni così differenti da farla sembrare veramente altro rispetto a quello che è e per cui non viene più riconosciuta. Certo, siamo nel campo delle interpretazioni particolari, dei giudizi soggettivi, influenzati dalla propria cultura tanto della politica quanto dello sviluppo sociale e civile, morale e culturale. Ma non dovrebbe esservi dubbio sul fatto che, diminuire progressivamente i diritti del mondo del lavoro, aumentando le difficoltà di sopravvivenza di milioni di italiani, è violenza.
Non dovrebbe esservi dubbio alcuno sul fatto che, costringere altrettanti milioni e milioni di indigenti, a servirsi di un sistema sanitario privo di potenzialità capaci di evadere le richieste di assistenza (spesso urgentissime) è violenza. Nessun tentennamento si dovrebbe riscontare nel valutare come violenza ogni tentativo di costruzione di un’etica di Stato che si ispiri ad una valorialità intrinseca alla religione e alla religiosità per modificare le Leggi che tutelano la salute, la proprietà e le decisioni in merito al proprio essere, al proprio corpo, alla propria esistenza. Tanto per le donne, quanto per gli uomini.
Non dovrebbe generarsi alcuna titubanza, nessunissima esitazione sul fatto che si trova davanti ad una manifestazione di pernicioso esercizio di una violenza da parte dello Stato nel momento in cui si bloccano in mare aperto delle navi con decine di migranti a bordo e li si lascia, dopo traversate in cui si rischia la vita, in balia del caldo torrido dell’estate o del gelo agghiacciante dell’inverno nel nome della difesa dei confini d’Italia, della preservazione della sacralità della Patria dal contaminamento con una “invasione” mai esistita di esseri umani definiti spregiativamente “clandestini“.
Nemmeno si può chiamare altrimenti, se non “violenza” e sempre “di Stato” (il che è mortificante per l’altezza morale e civile che dovrebbe avere la Repubblica) un altra forzatura (la forza c’entra sempre…) che concerne il quadro complessivo dell’informazione: l’occupazione, da parte delle forze di governo, della Radio Televisione Italiana è prima di tutto un segno di debolezza culturale che, ciclicamente, viene assunto dalle forze di maggioranza come dimostrazione della proprie capacità gestionali e che, invece, finisce con l’essere la peggiore espressione di quella che Pannella chiamava la “partitocrazia“.
Oggi siamo ad altri e più indecorosamente alti livelli: siamo oltre il potere dei partiti. Siamo alla ridefinizione del ruolo dello Stato che si fa pienamente interprete della dottrina liberista che lo vuole come minima riduzione di un potere sovrastrutturale che, in ciò che ne resta, esercita un ruolo formale e lascia campo aperto all’intervento del mercato nell’agone politico. Chiarissimo esempio di questa applicazione delle teorizzazioni tardo novecentesche dell’evoluzione capitalistica è la vittoria di Trump e l’affermazione del vero nuovo presidente della Repubblica stellata: Elon Musk.
Un miliardarissimo che si permette, proprio perché capace di influenzare il livello politico con la forza del potere che gli viene dal cumulo delle sue immense fortune, di dettare all’Italia l’agenda politica e la modificazione della prassi istituzionale, riconfigurando gli equilibri tra i poteri dello Stato che sono definiti nella Carta del 1948. Questa non è violenza?
Certo, non è la plastica raffigurazione delle aste delle bandiere degli studenti che si scagliano contro i poliziotti o contro le camionette e permettono alle destre di affermare che la marmaglia rossa è sempre la stessa facinorosa congrega di esagitati. E non è nemmeno la pacifica, ghandiana protesta dei ragazzi e delle ragazze che fermano il traffico per le strade, fanno azioni di disobbedienza civile e imbrattano opere d’arte per attirare l’attenzione sul grande dramma del cambiamento climatico.
Ma Musk, quando interviene in questo modo, sa di andare oltre le regole e lo fa scientemente, perché aiuta le destre di governo nel compito di raffigurarsi come accettabili nel contesto internazionale che, comunque, muta e somiglia sempre meno ad un consesso capace di un galateo formale dei rapporti che vengono oltrepassati dalla volgarità, dal pressapochismo e da un “liberi tutti” che è post-democratico.
Un sottosegretario del governo Meloni si è permesso, del resto, in pubblico, senza nessun nascondimento, senza nessuna possibilità di appellarsi ad una frase dal sen fuggita, di affermare ciò: «È per il sottoscritto un’intima gioia l’idea di veder sfilare questo potente mezzo che dà prestigio, con sopra il Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria e far sapere ai cittadini come noi sappiamo trattare e incalziamo chi sta dietro quel vetro e non lo lasciamo respirare». Far mancare l’aria, soffocare è una compressione polmonare che fa il paio con la compressione dei diritti umani, civili, sociali.
È la logica repressiva delle destre che hanno nel loro DNA uno scostamento dai valori costituzionali che non possono trascendere con la partecipazione ad un governo, con la gestione diretta del potere per delega popolare. È una insuperabile connotazione primitiva di un postfascismo che ricalca l’aguzzinismo dei primordi del movimento mussoliniano: proprio lì dove la forza era sostanza dell’agire politico, la sopraffazione era la cifra dell’interpretazione programmatica del diritto ad una affermazione a tutti i costi. Ed infatti lo Stato liberale muore in quegli anni cinerei che scivolano verso la dittatura.
Non sono forse violenza le forzature che il governo sta operando nei confronti degli altri poteri dello Stato? Dal Parlamento alla magistratura. Dagli enti locali (che dovrebbero subire le conseguenza della controriforma sull’autonomia differenziata, opportunamente valutata nel cuore del progetto come incostituzionale da parte della Consulta) al singolo cittadino, non la garanzia dei diritti, ma il potere dell’esecutivo si fa sentire e cala sulla nazione giorno dopo giorno, abituando la maggior parte di noi a mettere insieme una certa incredulità con l’accettazione.
Il consolatorio ripetersi che l’autoritarismo è ben al di qua dal presentarsi davanti alle nostre soglie di libertà civili, sociali, di organizzazione, di manifestazione del dissenso, non ci esime dal sottovalutare le potenzialità repressive del DDL 1660. I germi dello squilibrio costituzionale, a tutto vantaggio di Palazzo Chigi, sono sempre più vistosamente percepibili senza bisogno di lenti di ingrandimento. Se ne è avveduto anche il Presidente della Repubblica che mai era intervenuto così ripetutamente per richiamare la maggioranza ad un rispetto delle regole.
Il Quirinale è l’ultimo limes in difesa dell’autenticità democratica della Repubblica. Proprio la non considerazione dei limiti del potere è il problema di questa destra che, obiettivamente, fa quello che avrebbe sempre voluto fare se fosse arrivata al governo quando si chiamava ancora MSI-DN o Alleanza Nazionale. Ma, fatte le debite differenze temporali, quindi ormai storiche, quasi quasi sembra peggiore oggi il combinato disposto tra Fratelli d’Italia e Lega rispetto a quello tra il vecchio trittico berlusconiano.
La violenza di una parte dei manifestanti nei confronti della polizia è esecrabile. Ma lo sono anche tutte le altre forme di violenza: i manganelli spezzati sui corpi degli studenti, degli operai, dei sindacalisti e di tutti coloro che, Costituzione alla mano, rappresentano la vera sovranità nella Repubblica e a cui il governo deve obbedienza. Perché l’esecutivo deve – permettete un cenno di romanticheria un po’ retrò – essere al servizio della popolazione e non può essere il contrario.
Siccome tocca fare dei bagni di realtà minuto dopo minuto, non ci illudiamo che il governo di Giorgia Meloni possa farsi carico di questa zapatistissima interpretazione del ruolo di chi amministra; ma quanto meno lo ricordiamo a noi stessi. Perché oggi, più che mai, la vigilanza repubblicana è necessaria: dobbiamo contrastare ogni azione di Palazzo Chigi e della maggioranza per il bene del Paese, per la salvezza di una laicità delle istituzioni che è la quintessenza della democrazia.
Dal mondo del lavoro a quello della scuola, dalla grande eterogeneità della cultura diffusa e della socialità che può esprimere nel coinvolgimento partecipativo deve partire una opposizione di massa, multicolore, tra le più diverse forme ed espressioni della politica, del sindacalismo, dell’aggregazione civile e civica. La maggioranza vera è quella di una Italia che non vuole perdere la sua libertà, la sua democrazia, la sua Costituzione. La vergogna del postfascismo ai vertici della Repubblica deve finire.
Non c’è condivisione del presente con queste destre che, nonostante il loro giuramento, restano aliene alla cultura della solidarietà, della condivisione, della pluralità delle posizioni, della multietnicità di un mondo che cambia di ora in ora. Vanno sostituiti con una alternativa progressista che riprenda lo spirito primigenio della Carta, dello Stato dei cittadini e non di polizia; del confronto anche aspro e non dell’insulto gratuito. Della dialettica parlamentare e non della subordinazione delle Camere all’esecutivo.
Mandiamoli via. Costruiamo ora una alleanza per l’alternativa: democratica, sociale, antifascista, pacifista ed ecologista. Senza questa prospettiva unitaria, nell’autonomia delle singole particolarità, il melonismo eroderà sempre di più, insieme al salvinismo-vannaccismo, le incoscienze del Paese e le farà sembrare, drammaticamente, il substrato di normalità su cui superare l’unità nazionale, il parlamentarismo e ogni diritto fondamentale per il pieno sviluppo di tutti e di ciascuno.
MARCO SFERINI
16 novembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria