Per ora il governo non ha osato tanto. Non ha, infatti, ancora inveito contro i giudici della Consulta che hanno dichiarato la quasi totale incostituzionalità della controriforma calderoliana sull’autonomia differenziata. Non c’è, quindi, almeno per il momento, un complotto per destabilizzare l’esecutivo, per impedirgli di lavorare, per ostacolarlo nella sua produzione di proposte, disegni e decreti legge che sono palesemente in contrasto con i valori fondanti della Repubblica sull’uguaglianza universale dei cittadini. In questo caso da Nord a Sud del Paese.
Nemmeno i ministri leghisti, che sono quelli più direttamente interessati alla bandierina della legge spacca-Italia messa sul cranio vuoto dell’esecutivo, osano proferire un anche soltanto timido anatema contro i supremi giudici costituzionali. Anzi, Calderoli per primo si affretta a precisare che l’impianto complessivo della normativa è legittimo e che i rilievi della Corte saranno presi in debita considerazione per una nuova stesura del testo. Ma tant’è, la disperazione resta. Perché, per l’appunto, si tratta anche di un problema di tenuta politica interna al governo.
Questa maggioranza si regge, oltre che su un patto di gestione degli interessi delle grandi economie private, pure su un equilibrismo che mette insieme con la colla e con pezzi di nastro adesivo Forza Italia, la cui essenza sta nella rappresentanza della classe medio-alta della moderna borghesia italiana; la Lega di Salvini, nazionalisticamente post-padana e post-secessionista, che riprende qualche modesto presupposto originario proprio con la rivendicazione dell’autonomia differenziata; Fratelli d’Italia che punta alla realizzazione del premierato.
Se questo schema si infrange e, peggio, si rompe, rischia davvero di saltare tutto il precario assetto di compromesso vicendevole tra le destre di governo. Ma, siccome chi ha il potere tende a mantenerlo a costo di immani sacrifici, è abbastanza certo che, nonostante la batosta presa da Calderoli e dalla Lega sull’autonomia differenziata, per ora il tripartito della moderna reazione e conservazione non è in pericolo. Indubbiamente i rapporti di forza interni giocheranno ancora di più a sfavore del Carroccio.
Una ulteriore mutazione delle dinamiche interne a Palazzo Chigi la si potrebbe avere dopo le regionali di domenica e lunedì in Umbria ed Emilia Romagna: se la presidente Tesei (Lega) fosse rimpiazzata da un ritorno del centrosinistra, guidato da Stefania Proietti, il riverbero politico dalla regione più verde e cuore d’Italia si farebbe sentire con energica forza nelle stanze delle istituzioni di governo a Roma. Michele de Pascale, invece, in Emilia Romagna parte, almeno sondaggisticamente parlando, avvantaggiato: quasi tutti gli istituti gli assegnato una maggioranza assoluta sul 55% dei consensi, con un distacco di tredici punti in percentuale sulla compagine di centrodestra.
Se, quindi, in Umbria fosse sconfitta per la maggioranza attuale, la Lega, nel giro di pochissimi giorni, cumulerebbe un uno-due piuttosto imbarazzante, salvandosi magari in calcio d’angolo, o in zona Cesarini se preferite, se avesse un risultato numerico di lista migliore rispetto a quelli dei suoi partner di governo. La situazione, dunque, è in divenire molto più oggi rispetto all’ingresso sulla scena della legge di bilancio su cui un vero dibattito nazionale e popolare stenta a formarsi ma che, almeno, è garantito in parte dalla mobilitazione di CGIL e UIL con una serie di astensioni dal lavoro che inneschino un processo di “rivolta sociale“.
Ma, tornando alla questione iniziale riguardante la bocciatura quasi totale della riforma calderoliana sull’autonomia differenziata, va osservato che la Consulta, per quanto è possibile leggere dal comunicato diffuso, dichiara illegittime tutte quelle parti della Legge che delegavano al governo ciò che invece spetta al Parlamento della Repubblica in materia, appunto, di devoluzione dei poteri dalla centralità dello Stato alla periferia istituzionale regionalista. In una considerazione ulteriore, che riprende proprio il punto appena descritto, la Corte Costituzionale rimarca il fatto che non è possibile attribuire alle Regioni tutte le prerogative incluse nel Titolo V.
Sarebbe, in quel caso, pregiudicato il principio per cui ogni norma deve trovare la sua interpretazione «nel contesto della forma di Stato italiana» che si sostanzia nei «principi dell’unità della Repubblica, della solidarietà tra le regioni, dell’eguaglianza e della garanzia dei diritti dei cittadini, dell’equilibrio di bilancio». Il che, tradotto, significa che non si può consentire una diversità di trattamento da regione a regione in materia di diritti sociali, civili e, quindi, nell’insieme della vita economico-politica della Nazione. Incostituzionali sono anche quei LEP formulati da un ex Presidente emerito della Corte, Sabino Cassese, che si è prestato alla scrittura di un testo oggi sonoramente bocciato dai suoi colleghi.
I Livelli Essenziali di Prestazione non possono essere semplicemente ratificati dal Parlamento, ma devono essere oggetto di legiferazione attenta e, quindi, non sono materia delegabile al governo. Insomma, tutti i poteri che l’esecutivo si voleva attribuire ricorrendo all’introduzione dell’autonomia differenziata, squilibrando l’equipollenza costituzionale tra le Camere e, essenzialmente, Palazzo Chigi, sono inalienabili dalla loro sede naturale: il Parlamento che, quindi, almeno per la Consulta, rimane il cuore dell’eventuale devoluzione nell’attribuzione delle deleghe per l’esercizio di nuovi ambiti di autonomia legislativa regionale.
Quando l’Assemblea Costituente licenziò il testo definitivo della Carta fondamentale della Repubblica, all’articolo 116 pose particolare attenzione nello stabilire un duplice viatico nello stabilire quanti, quali e in che ambiti di intervento potessero essere formulati i presupposti delle autonomie delle Regioni a Statuto speciale. E, infatti, differenziando l’autonomia ordinaria da quella di Valle d’Aosta, Sardegna, Sicilia, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, disponeva che entrasse in vigore, in armonia con i principi generali dell’interesse pubblico, una “competenza legislativa esclusiva“.
Una terminologia forse impropria, ma utile a significare con sufficiente chiarezza che, già in allora, le Regioni a Statuto speciale potevano emanare norme di legge oltre la determinazione da parte dello Stato dei principi generali cui esse stesse dovevano ispirarsi. Ma mai in contrasto con la Costituzione, con le necessità più generali dell’intero Paese così come delle altre Regioni. Se si è seguita un po’ la vicenda della seconda “porcata” di Calderoli, risulterà abbacinante il fatto che qui ci si trovava invece nell’esatto opposto rispetto al contesto di elaborazione del diritto pensato nel 1948.
L’Assemblea Costituente, inoltre, nel successivo articolo 117, disponeva che ogni regione potesse emanare delle proprie leggi su diverse materie ed ambiti di intervento (per citarne alcuni: viabilità, acquedotti, lavori pubblici di interesse regionale, navigazione e porti lacuali; acque minerali e termali; cave e torbiere; caccia; pesca nelle acque interne; agricoltura e foreste; artigianato, nonché in altre materia indicate da leggi costituzionali), ma alla condizione che esse si mantenessero entro un duplice limite:
1) quello rappresentato dai principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato;
2) quello del rispetto degli interessi sia nazionali che delle altre Regioni.
Come si può facilmente vedere, tanto per l’articolo 116, che consente gli Statuti speciali per le cinque regioni di frontiera (anche culturale e linguistica), quanto per quelle a Statuto ordinario, i costituenti hanno inteso salvaguardare il carattere egualitario del trattamento dei diritti fondamentali così come quello dei diritti particolari, provando a dare allo Stato unitario un fisionomia regionalista, prescindendo da una fisionomia federalista che avrebbe generato impulsi separatisti nella ricomposizione dell’Italia uscita dalla Seconda guerra mondiale divisa tra Regno sabaudo al centro-sud e Repubblica Sociale mussoliana al nord.
Una seria e preparata classe dirigente di governo dovrebbe tenere conto del preambolo anche storico e culturale del Paese. Ma sembra davvero una impresa impossibile se si pensa al fatto che le forze politiche che compongono la maggioranza e l’esecutivo hanno, tra le altre politiche liberiste e iper-privatizzatrici, lontane da qualunque interesse pubblico, sociale e civile per l’interezza del Paese, proposto nel corso della loro storia una serie di norme e di intenzioni politiche volte alla divisione classista da un lato e territoriale dall’altro.
La seconda come presupposto della prima, quanto meno nella lunga, esasperante parabola separatista di un leghismo oggi consciamente, volutamente dimenticato dal neonazionalismo salviniano; superato nel tentativo di diventare punto di riferimento delle classi imprenditoriali moderne, dal melonismo che ha fatto rinascere le pulsioni autoritarie, autocratiche e plenipotenziarie dell’estremismo postfascista missino. Il governo è forte di un consenso che non cala nei sondaggi, che si percepisce strada per strada. Ma anche il disagio sociale aumenta e la crisi economica non sembra essere alle sue battute finali.
L’aumento delle spese militari pone la maggioranza delle destre estreme dentro la cornice della permeabilità con le grandi influenze esterne, nordatlantiche, tutt’altro che garanzia di sovranità nazionale. Non di meno la proposta di riforma calderoliana minava, invece, dall’interno quel minimo di unità e di democrazia sociale ancora rimasti in questa Italia di un 2024 fatto di indici ISTAT che regalano un quadro complessivo tutt’altro che rassicurante per la povera gente, per chi campa del suo salario, della misera pensione, in uno stato di indigenze crescente.
Nell’insieme, davanti a problemi di vera e propria sopravvivenza giornaliera, le questioni qui trattate, costituzionalismo, riforme, regionalismo, autonomie più o meno differenziate, possono apparire trascurabili e di secondo, magari anche di terzo piano. Invece non sono un formalismo puro e semplice. Sono sostanza, perché il progetto leghista era (e rimane) quello di dare maggiori risorse, opportunità e sicurezze alle regioni più ricche, lasciando indietro quella parte di Paese da sempre guardata con diffidenza (il termine è volutamente eufemistico) fin dai primordi della Lega Lombarda prima e della Lega Nord poi.
Salvini e Calderoli oggi, Calderoli e Bossi ieri non hanno avuto mai niente a che fare con un vero federalismo che, invece di garantire i privilegi dei ricchi, è, nei presupposti storico-politico-amministrativi anche delle vicende risorgimentali e seguenti, ricerca dei punti di unione tra le diversità e non di esclusivismo e separazione classista. Bene che la Corte abbia evidenziato tutto questo. La soglia dell’attenzione popolare va però tenuta alta, perché il referendum abrogativo rimane ancora in piedi…
MARCO SFERINI
15 novembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria