Licia Rognini la verità l’ha sempre saputa e non l’ha mai dimenticata fino a ieri mattina, quando è morta a Milano all’età di 96 anni. Quello che è successo a suo marito Giuseppe Pinelli la notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969 nella questura di Milano, almeno per lei, non è mai stato un mistero. «Signora, abbiamo molto da fare!», le disse brusco il commissario Luigi Calabresi al telefono mentre Licia cercava disperatamente notizie. E lì tutto fu chiaro. Poco prima a casa sua si erano presentati tre giornalisti: Camilla Cederna, Corrado Stajano e Giampaolo Pansa.
Pino e Licia si erano conosciuti nel 1952 a un corso di esperanto organizzato dal Circolo filologico milanese. «Ci univano, oltre all’affetto, la comune dedizione all’idea di un mondo pacifico e affratellato da un unico linguaggio», è la versione di lei, che anarchica non è mai stata ma che, come lui, credeva che la sua patria fosse il mondo intero e la sua legge la libertà. Da quando Pino è morto, tre giorni dopo la strage di Piazza Fontana, Licia e le sue due figlie, Silvia e Claudia, non hanno tremato mai, nemmeno un secondo. Le lacrime si sono fatte parole e le parole, si sa, sono pietre: gli ultimi 55 anni sono passati tutti sulle barricate a tener viva la memoria contro ogni menzogna, ogni depistaggio e ogni revisione della storia.
Perché non c’è solo la morte dell’anarchico Pinelli, precipitato giù dal quarto piano della questura quando il suo fermo era già scaduto , ma anche tutta la lunga serie di bugie che sono state dette sul suo conto. Si è suicidato, dicevano, perché inchiodato alle sue responsabilità per la strage. «Con un balzo felino» si è lanciato gridando «è la fine dell’anarchia!». Non era vero, ovviamente, così come non era vero il coinvolgimento degli anarchici nei fatti del 12 dicembre. Nel 1975, con la sentenza del giudice D’Ambrosio, si fece allora largo la versione del «malore attivo» (formula notissima ma che in realtà non è nelle carte giudiziarie), cioè «il collasso che si manifesta con l’alterazione del centro di equilibrio cui non segue perdita del tono muscolare e cui spesso si accompagnano movimenti attivi e scoordinati».
In pratica, forse per lo stress dell’interrogatorio, forse per la cappa di fumo di sigarette, forse per il freddo, forse per lo stomaco vuoto, Pinelli a un certo punto avrebbe cominciato a barcollare nella stanza fino a cadere giù dalla finestra. Una spiegazione ai confini della realtà e che però, ad oggi, è l’unica verità giudiziaria sulla vicenda. Almeno, dicono i più ottimisti, si è esclusa una volta per tutte la tesi del suicidio.
Licia, però, non ha mai creduto che la verità si potesse trovare nelle aule di un tribunale. Lei voleva «l’altra verità», cioè, come disse a Vincenzo Consolo in un’intervista uscita sull’Ora di Palermo il 12 dicembre 1971, «quella che dovrebbero volere i parenti dei morti di Piazza Fontana, i parenti di Valpreda, di Saltarelli, la verità che vuole lei, chiunque, ognuno che ha coscienza dei propri diritti, della propria libertà». Nel 2002, intervistata da Peppe D’Avanzo su Repubblica, Licia troverà le parole anche per parlare del commissario Calabresi, l’uomo che aveva fatto fermare suo marito e che poi sarebbe stato ucciso vicino casa sua, a Milano, la mattina del 17 maggio 1972.
«L’ho visto una sola volta, in tribunale durante il processo a Lotta Continua – disse -. Quando è entrato in aula, hanno preso a gridargli dal pubblico: Assassino! Per un attimo mi sono sentita nei suoi panni. La gente continuava a gridare e mi ha fatto pena». Per il resto non è mai passata la convinzione che il commissario le avesse sempre mentito, sin dalla notte in cui Pino è morto: «Se avesse detto la verità, sarebbe subito venuto a dirmela quella sera stessa. Calabresi non ha mai detto davvero tutta la verità».
Non l’hanno detta in molti. Compreso il questore Achille Serra, che appena due anni fa aveva rilanciato in televisione la bugia delle bugie: «Pinelli si buttò giù dalla finestra». Licia e le sue figlie querelarono, lo scorso aprile la III sezione penale del tribunale di Milano ha decretato una transazione tra le parti che comprendeva anche le scuse dell’ex poliziotto.
Prima, era il 2006, il Comune di Milano aveva provato anche a inciderla sulla lapide commemorativa, la menzogna. Nella dedica, Pinelli «ucciso innocente» divenne «innocente morto tragicamente». Ci hanno dovuto pensare gli anarchici a rimettere la targa originale a fianco di quella edulcorata dalle istituzioni cittadine.
E il perdono? Esiste? Nel 2009, ci fu l’incontro, storico, con Gemma Capra, vedova Calabresi, al Quirinale davanti al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. E nel 2019, il sindaco Giuseppe Sala chiese perdono a nome di tutta la città. «È stato un bel gesto, che ci restituisce qualcosa. Io non mi aspetto niente da nessuno, quello che arriva arriva, come è avvenuto in questi cinquant’anni», commentò Licia ai microfoni di Radio Popolare.
E qualcosa, in effetti, ogni tanto quasi arriva, in un modo o nell’altro. Del resto il titolo del libro che nel 1982 scrisse con Piero Scaramucci s’intitola «Una storia quasi soltanto mia». «Quasi», appunto. Perché la strage di piazza Fontana – che non fu la perdita dell’innocenza ma l’inizio della fine -, la morte di Pino Pinelli nella notte più calda di sempre a Milano, la volontà di Licia che si è fatta Marianne immortale sulle barricate, sono storie inevitabilmente nostre.
MARIO DI VITO
foto: screenshot tv