C’è una partita di calcio, in Olanda: Maccabi Tel Aviv contro Ajax. Gli israeliani perdono 5 a 0. Prima dell’incontro sportivo, alcuni dei sostenitori della squadra che soccombe si erano prodotto in una serie di atti contro la comunità palestinese: strappando bandiere appese alle finestre, aggredendo un tassista arabo-marocchino e avvicinandosi allo stadio con cori di questa rara raffinatezza ed umanità: «Non ci sono più scuole a Gaza perché non restano più bambini»; oppure: «Israele distruggerà gli arabi».
Le invettive contro il popolo palestinese sono continuate anche dentro lo stadio, persino nel minuto di silenzio chiesto per onorare le vittime della grande alluvione che ha colpito Valencia. Nessun rispetto per i morti, nessun rispetto per i vivi. Definirli “tifosi” è fuori luogo. Sono teppisti. E non c’è stato nessun “pogrom”, come richiamato da un po’ tutte le cancellerie europee, dal premier israeliano Netanyahu, pronto – in questo caso – ad evocare lo spettro della Notte dei cristalli.
C’è stata una reazione uguale e contraria: violenta e ingiustificabile. Deprecabile tanto quanto lo sono state le premesse che hanno provocato gli atti di rabbia di una parte della tifoseria palestinese o, comunque, “Pro-Pal” dell’Ajax. Ma, tanto è bastato, per montare il caso di una “caccia all’ebreo” in terra d’Olanda. Non che l’antisemitismo sia un perfetto sconosciuto in Europa e in larga parte del mondo. Ma, se così mestamente si può dire e scrivere, non è che quello che sta compiendo Israele in Palestina aiuti a sradicarlo dalle malepiante dell’estrema destra.
I nazionalismi si riconoscono fra loro e, proprio perché tali, si affrontano come nemici acerrimi quando c’è di mezzo una guerra. Ed anche quando c’è una partita di calcio che nulla dovrebbe avere a che fare con la gravissima situazione che vive il popolo palestinese a Gaza, in Cisgiordania e nel resto del Medio Oriente. Poi, proprio nel giorno in cui per le vie di Amsterdam si scatenano queste violenze, mentre la polizia reprime e il mondo occidentale pensa solo ad una delle due parti in lotta, arriva un rapporto.
C’è, infatti, un resoconto minuzioso, dettagliato dell’ONU sui morti nella guerra di Gaza fino ad oggi. Se lo si va a leggere sul sito delle Nazioni Unite, le prime frasi sono già esplicative del comportamento tanto del governo quanto dell’esercito israeliano: una sistematica azione contro le infrastrutture civile, contro quelle sanitarie: il tutto prescindendo da una mirata rappresaglia per i fatti del 7 ottobre 2023, andando alla ricerca dei capi di Hamas piuttosto che colpire indiscriminatamente al popolazione civile.
Ma il piano genocidiario, nonostante le critiche del silurato Gallant, della comunità internazionale e i mandati di comparizione davanti alla giustizia per i crimini di guerra spiccati contro Netanyahu (e lo stesso ministro cacciato dal governo d’emergenza), prosegue senza sosta. I generali israeliani lo dichiarano senza più alcuna cautela diplomatica: nel nord della Striscia di Gaza non potrà tornare nessun palestinese. Nessuno dei centinaia di migliaia di sfollati rivedrà la sua casa, ciò che ha lasciato e che, probabilmente è stato ridotto in macerie.
I morti fatti da Israele sono più di quarantatrèmila. I feriti oltre centoventimila. Il settanta per cento dei palestinesi uccisi sono donne e sono bambini. Questo vuol dire che il governo di Tel Aviv ha miratamente puntato a colpire degli innocenti: una intera popolazione, invece che dare la caccia ai terroristi criminali di Hamas. Non c’è mai stata forse, ma oggi ancora di più non c’è differenza tra la strage compiuta dalle Brigate Ezzedin al-Qassam e quanto sta facendo lo Stato ebraico a Gaza.
O quello che sta portando avanti in Libano, così pure nella Cisgiordania in cui la ferocia dei coloni sionisti si abbatte sui palestinesi che sono cacciati dalle loro case e dalle loro terre, picchiati e lasciati senza acqua, cibo. Così come Mosè venne spinto a vagare per il deserto verso le terre di Maidan. Dal mito all’attualità, dal padre del popolo ebraico al popolo israeliano che, pure, protesta contro Netanyahu per il mancato rilascio degli ostaggi, per una guerra che non porta altro risultato se non quello dell’espansionismo imperialista dell’estrema destra religiosa sionista, le persecuzioni non hanno fine.
L’ONU, naturalmente, verrà tacciato di antisemitismo: perché la sola risposta distorsiva, revisionistica sul piano della recente storia e di quella intera del Novecento, è quella del farsi scudo con la tragedia olocaustica della Seconda guerra mondiale e dei pogrom in Europa per sintetizzare la ragionevolezza dell’autodifesa che Israele deve mettere in atto se aggredito. E non importa se la sproporzione della difesa nei confronti dell’offesa è abnorme. Non importa se a pagarne il prezzo sono anziani, donne, bambini del tutto innocenti.
Non importa se tutto questo rischia di trascinare il Medio Oriente in una guerra permanente e molto oltre i confini del regionalismo in cui ancora oggi si situa. Israele, che si picca di essere l’unica democrazia di quell’area travagliata e tormentata da secoli, uccide impunemente decine di migliaia di civili, azzera la loro esistenza materiale, morale e tenta anche di annichilirne la storia, la memoria. Li caccia dalle loro terre e li relega in “zone di sicurezza” in una Striscia di Gaza dove non c’è quasi più nulla da distruggere, ma vi sono ancora molti palestinesi da ammazzare.
Il Mossad, Aman e Shin Bet hanno dimostrato che se vogliono, possono colpire senza fare stragi: gli omicidi mirati dei leader di Hamas o di alti comandanti iraniani sono la prova oggettiva delle capacità dei servizi segreti israeliani e dei loro bracci armati. Ma la questione di Gaza e quella del Libano sono ben altra cosa. Il 7 ottobre 2023 è stato preso dal governo di Netanyahu come l’occasione per rivalersi della caduta politica di consenso cui stava andando rovinosamente incontro.
È stata la ferale pretestuosità di alibizzare le proprie criminali azioni sotto il manto della ritorsione per i millequattrocento morti dell’attacco di Hamas ai kibbutz a sostenere per qualche settimana le azioni di rivalsa dello Stato ebraico e, poi, a trasformare il tutto in una giustificazione permanente di contrattacco totale contro un popolo palestinese considerato collaborazionista dei terroristi. Senza distinzione alcuna.
L’uccisione di tutti questi bambini riecheggia nei cori spregevoli dei teppisti-pseudotifosi del Maccabi Tel Aviv. Il proposito sembra proprio quello di cancellare una intera generazione di palestinesi per mettere fine alla minaccia rappresentata dalla rivendicazione dello Stato di Palestina, di una repubblica indipendente accanto ad Israele. Ogni progetto di pacificazione è oggi inimmaginabile, eppure non va abbandonato per quanto lontano possa sembrare ed essere realmente.
La colpevole politica di sostegno armato da parte degli Stati europei e di Washington accresce il debito morale e civile dell’Europa e dell’America nei confronti della nazione palestinese che rischia il destino del popolo ebraico, della diaspora, come nemesi immeritata per gli effetti di un secondo conflitto mondiale che ha giustificato la nascita di Israele ma che non ha mai avuto il placet dell’intera comunità mondiale.
Per fare ordine nella regione mediorientale occorre anzitutto la cessazione di ogni conflitto. Senza questa premessa, qualunque accordo di presunta pace è un pannicello caldo, una velleità, un presupposto inconsistente su cui far riposare altri alibi dei governi tanto occidentali quanto arabi. La guerra uccide velocemente e lentamente: la denutrizione, le malattie, la mancanza di qualunque possibilità di accesso alle cure più elementari, sono i prodromi per uno sterminio davvero di massa che si spalma su anni e anni anche nell’ipotetico dopo-guerra.
Secondo le Nazioni Unite a Rafah, ad esempio, non esiste più un panificio aperto. Non c’è nessuno che possa materialmente fare il pane. La scarsità del cibo si registra sempre più anche nelle altre città della Striscia. Israele blocca gli aiuti umanitari, ammassa i palestinesi in zone tutt’altro che sicure, mentre bombarda ospedali, case di assistenza, centri umanitari e ogni giorno fa nuovi morti. Tanto a Gaza quanto in Libano.
Questa può dirsi una democrazia? Il significato di questa parola sembra sempre più dimenticato, svilito e pervertito dalle scelte politiche di popoli che dovrebbero invece averla a cuore, ma la cui disperazione li porta a preferire autocrati, tecnocrati e magnati dell’economia prestati a ruoli presidenziali da cui si lanciano in esperimenti di autoritarismo per l’appunto post-democratico. Il neoliberismo gioca la partita cinica del multipolarismo risistemando le pedine in tutti i continenti.
Non c’è un gruppo di Stati che vada nella direzione di una alternativa alla guerra: ognuno si pensa come l’esatta interpretazione, oltre che dei propri interessi, anche di quelli dell’altra parte del pianeta. Ognuno si attribuisce una morale superiore da imporre, piuttosto che da condividere con gli altri paesi. Ed Israele questo lo sa benissimo, visto che la religione ebraica ritiene proprio il suo popolo quello “eletto” e prediletto da Dio per fondare la sua nazione qui sulla Terra.
In questa complessità di fattori, ogni elemento culturale, anche di natura strettamente sociale e banalmente riferibile ad eventi sportivi che dovrebbero avere tutt’altra valenza nel contesto generale, diventa una potenziale mina vagante che, una volta esplosa, dà adito alle più perniciose interpretazioni rivolte alla diffusione di narrazioni che prevaricano la verità e che mettono a nudo, tuttavia, la difficoltà di reggere il confronto con l’oggettività delle atrocità commesse da Israele.
Non c’è giustificazione per i cori antipalestinesi dei tifosi del Maccabi Tel Aviv, così come non c’è giustificazione per la violenza che ne è seguita. Ma parlare di antisemitismo è davvero una pretestuosità. Perché allora come dovrebbe essere chiamata la voglia di sterminio dei bambini e delle genti arabe invocata da coloro che sono stati poi presi di mira dopo la partita di Amsterdam?
I mutamenti politici impongono degli aggiornamenti anche lessicali: dobbiamo trovare nuove parole per esprimere concetti che però datano nei secoli dei secoli: perché la Storia si ripete; soprattutto perché molti conflitti si trascinano oltre ogni immaginazione e sedimentano nelle incoscienze di chi, in particolare, intende sfruttare l’invivibilità dell’esistenza per fini che tutto hanno come scopo tranne quello di rendere migliore la vita di tutti.
Motivazioni economiche, finanziarie, militariste, imperialiste e politiche, oltre che culturali e religiose, sono un missaggio di interdipendenze tra strutture e sovrastrutture che rende molto bene almeno la fisionomia della veramente grande difficoltà a rendere il tutto su un piano di semplificazione naturale. Non c’è, infatti, nulla di naturale nei genocidi, negli stermini, nelle guerre che sono sparse per il mondo.
Senza il ritiro di Israele dal Territorio occupato palestinese, nessuna pace è veramente possibile. Se una sintesi va tratta da queste considerazioni e da ciò che avviene in giro per il mondo, come effetto di quello che accade in Palestina, ebbene questa sintesi non può avere alti caratteri descrittivi se non quelli che rimandano alla fine del governo Netanyahu, alla cessazione delle ostilità, al rientro dello Stato ebraico nei confini del 1967. Quindi, il rispetto delle risoluzioni dell’ONU.
Se Israele intende definirsi “democrazia“, deve dare a questa parola il significato che le spetta e non agire come uno Stato confessionale imperialista, che pratica l’apartheid in Cisgiordania e che l’ha pratica a Gaza per decenni. Mettere fine alla guerra di Gaza vuol dire anche mettere fine alla colonizzazione sionista nella West Bank. Ciò che avviene in Palestina è sempre più indescrivibile come una “semplice” guerra regionale.
Non basta chiedere ad Israele, come fanno gli Stati Uniti, di fermarsi minacciando la sospensione dell’invio della armi. Bisogna mettere in pratica quei propositi ventilati. Così dovrebbero fare gli Stati europei. Cessare ogni collaborazione con Israele fino a quando non rispetterà i diritti umani, le convenzioni internazionali, le direttive delle Nazioni Unite e rientrerà quindi nel legittimo consesso globale.
Queste saranno anche considerazioni a latere, intrise di un pizzico di ingenuità, magari anche di retorica, ma come altrimenti chiamare lo “stato di cose presente” se non la quintessenza dell’innaturalità per un futuro completamente diverso dal presente? Odio genera odio, violenza genera violenza. E vale sempre il pensiero ghandiano: «Occhio per occhio e il mondo sarà cieco». Ammesso che non lo sia già diventato, da molto, tanto, troppo tempo.
MARCO SFERINI
9 novembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria