I sondaggi negli ultimi giorni hanno fatto registrare un progressivo riavvicinamento delle curve dei consensi. Complici o meno le gaffes di Biden sugli elettori trumpiani, sta di fatto che l’elezione del prossimo Presidente degli Stati Uniti d’America si annuncia per quello che il grande teatro dell’informazione che disinforma voleva che fosse: una specie di dramma da consumarsi al cardiopalma, voto per voto, scheda dopo scheda, contea dopo contea e Stati in bilico ovviamente a farla da padroni nella notte più lunga della Repubblica stellata da un po’ di tempo a questa parte.
Di là, nella trincea repubblicana, un consolidato supporto del duo Trump-Vance con un elettorato fanatizzato da isterismi religiosi, propensioni messianiche (dall’attentato al magnate ancora di più rispetto a prima…), coltivazioni complottiste a tutto spiano, insulti senza remore contro gli avversari, persino minacce di morte (all’ex competitor Cheney) e, per fare buon peso sul piatto della bilancia, un giusto apporto di odio nei confronti delle minoranze, dei migranti e della comunità LGBTQIA+.
Di qua Kamala Harris e Tim Walz, governatore del Minnesota, che, muovendo da posizioni moderatamente democratiche, pienamente addentro una logica di guerra all’esterno e una liberista all’interno, provano a contenere la spinta aggressiva del trumpismo come fenomeno moderno di eversione antisociale, incivile (non semplicemente anti-civile…), amorale (nel senso che proprio gli manca un’etica personale da simbiotizzare con quella pubblica e anche istituzionale) e dai contorni marcatamente suprematisti bianchi.
Si affrontano, quindi, due Americhe diametralmente opposte sul terreno dei diritti civili, umani, della preservazione o della cancellazione dei fondamentali di una democrazia che è già ampiamente solcata da una violenza liberista che il consolidamento del potere dalla classe imprenditoriale e finanziaria ha strutturalizzato da un mezzo secolo a questa parte: trent’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la nuova visione di lungo corso del capitale prende forma proprio qui, tra i Chicago boys che studiarono come esportare il tutto sotto l’egida dei militari di turno in Cile, Argentina, Brasile e l’assetto bipolare del mondo.
Un mondo in cui i magnati come Donald Trump si ritrovano attorno al progetto politico dello Stato che si indebolisce di fronte al potere del mercato: una teorizzazione reaganiana che porta alle estreme conseguenze un conservatorismo di nuova generazione che, tuttavia, finisce coll’arrivare alle soglie del nuovo millennio con sempre più fiato corto, avendo esaurito ogni possibilità di stabilizzazione delle crisi cicliche del capitale e di possibilità di sfruttamento delle tasche della working e della middle class. È così che il sistema si ritrova a dover cercare nuovi promotori dell’ideologia liberista in una modernità in cui i rapporti di forza globali cambiano repentinamente.
Al bipolarismo delle due superpotenze si sostituisce, gradualmente, con gli effetti che oggi sono sotto gli occhi di tutti, un multipolarismo sempre più concorrenziale sotto ogni punto di vista ed ogni ambito di interesse economico e finanziario che, paradossalmente, invece di accrescere i valori democratici rispetto a quelli autocratici dell’Est europeo, della Russia, della Cina, della Corea del Nord e via di seguito, accentua un protezionismo interno, si pone sulla difensiva e mostra gli artigli soltanto quando la reazione diviene minaccia nell’intercapedine europea. Là dove la NATO punta verso i confini dell’orso russo; là dove le basi sono attrezzate per diventare una concreta minaccia: dai nuovi aderenti baltici alla Turchia fino alla base israeliana in Medio Oriente.
Donald Trump, in particolare in politica estera, si pone oggi come campione di una pace che, in realtà, non ambisce affatto a realizzare. Le premesse, infatti, sono affidate ad una distinzione dei ruoli tra Stati Uniti ed Europa, riversando sulla seconda non solo il futuro della guerra tra Russia e Ucraina (quindi tra il Cremlino e la NATO insieme al blocco occidentale…) in termini di relazioni geopolitiche, di divisioni territoriali e di rapporti diplomatici; ma anzitutto riscontrando nelle questioni di economia di guerra un tassello importante di propaganda elettorale oggi e di programma di governo domani.
Trump chiarisce a Zelens’kyj che il ruolo di Washington, qualora lui fosse eletto, sarebbe sempre più minimale nel conflitto e porterebbe ad un tavolo di pace (non si capisce bene in che modo…) in cui i contendenti dovrebbero accettare un accordo su reciproche zone smilitarizzate al confine (quale confine non è chiaro… quello attuale delimitato dal fronte di guerra o quello precedente all’invasione russa?), l’autonomia delle regioni russofone e, in tutto questo, l’Europa dovrebbe essere garante degli accordi e avere il ruolo di “peacekeeping“, di chi mantiene l’equidistanza e garantisce l’attuazione del piano.
Non solo tra le fila repubblicane c’è chi storce il naso di fronte al progressivo disimpegno statunitense previsto da questa pianificazione di smarcamento degli USA dal conflitto tra il blocco nordatlantico e Mosca; ma soprattutto tra i repubblicani è sempre più evidente la lettura di una fase nuova della guerra, di un abboccamento alla pacificazione dall’area, come di un tradimento delle ragioni e degli interessi americani supportati dalla NATO con quel piglio di comando delle operazioni che sovraintendono alle tante divisioni e indecisioni dei paesi europei.
Sul versante della politica estera, fatte tutte le differenze del caso in merito alla disposizione tattica (e strategica) delle truppe americane nel mondo e nei vari teatri di guerreggiamento e di scrutamento della rispettive mosse (Taiwan, tanto per fare un esempio concreto), Trump ed Harris esprimono la necessità di un ruolo egemone dello Zio Sam nel mondo, come se il multipolarismo fosse un accidente malevolo, un inciampo momentaneo, una distorsione temporale presto rimediabile e riparabile.
Pare evidente a tutti che la paranoia trumpiana, condita con una psicopatologia sociopatica, ha un che di imprevedibilità, muovendo le pedine sullo scacchiere internazionale a seconda del momento, delle simpatia finanziarie con questo o quel dittatore, così come con le democrazie propriamente dette. Non esiste, dunque, una vera linea di politica estera per “The Donald“: tutto si dispone e predispone a servire il MAGA, il maiuscolissimo acronimo che simboleggia il revanchismo a stelle e strisce in tutto il mondo, trattando i propri alleati come ciò che, del resto, in buona misura sono sempre stati: subordinati alle dinamiche dell’impero.
Fin dai primi giorni del suo primo (e speriamo unico…) insediamento alla Casa Bianca, Donald Trump ha smantellato ogni garanzia sociale per dare incentivi alla spesa militare ed implementare la difesa in senso lato; ha teorizzato l’invasione dei migranti, moltiplicando i finanziamenti per il muro al confine con il Messico (non di meno, comunque, ha fatto Biden, seppure con meno risonanza in materia di propaganda xenofoba); ha avviato una riforma fiscale che ha premiato l’uno per cento degli straricchi d’America ed alle grandi aziende, agli obbligazionisti e nulla al resto della cittadinanza.
Il bilancio della sua prima amministrazione è, rispetto all’inadempienza sociale di quelle democratiche che stanno pienamente dentro il contesto della logica capitalista moderna, disastroso sotto ogni punto di vista: se Biden e Harris sono afferenti al sistema profittuale, Trump è complice del liberismo più sfrenato. Entrambi si muovono su un terreno di condivisione dei rapporti tra politica e imprenditorialità, ma la differenza che li separa sta proprio nel fatto che le altre politiche, quelle sui diritti civili ed umani per il magnate sono integrate nel perimetro del liberismo e obbediscono a questa logica, mentre per i democratici esiste ancora un confine.
Il capitalismo americano non è più solido come un tempo: si trova a dover affrontare la crisi multistrato fatta di sconvolgimenti ambientali, dinamiche globali che mutano senza una apparente linea di condotta uniforme sotto la dettatura di Washington (altrimenti dicasi: multipolarismo), incertezze interne che investono prima di tutto i diritti fondamentali dell’essere umano e del cittadino e che, quindi, pongono di fronte alle esigenze di coniugare i diritti unitariamente e non separandoli tra sociali e non sociali. Quindi la domanda è: come si può giustificare una estremizzazione del liberismo oggi negli Stati Uniti d’America, così come proposto da Trump e Vance?
Potrà sembrare strano, ma, come ha notato David Harvey in più di un suo saggio, anche tra i capitalisti più liberisti si forma sempre più la convinzione che, dati alla mano, ci sia qualche cosa che nel modello attuale, nella forma presa dal sistema dal finire degli anni Settanta del secolo scorso fino ad oggi, non vada proprio e che, quindi, si debba porre rimedio alla situazione se non si vuole precipitare nel tracollo o trovarsi isolati rispetto al resto del mondo. L’immagine degli Stati Uniti d’America, non solo non più protagonisti della regolamentazione economica mondiale, ma ai margini della stessa, è lo scenario più inquietante che possono paventare i sostenitori di Trump.
L’instabilità del liberismo è manifesta e viene sfruttata dal resto dei paesi per ricercare convergenze e alleanze che permettano una alternativa al modello portato avanti dalla Repubblica stellata. Questo non significa affatto lasciarsi ingannare e pensare che i BRICS, ad esempio, siano un blocco omogeneo che guarda all’anticapitalismo soltanto perché avversa il dominio unipolare americano (peraltro già superato nei fatti da qualche decennio). Significa semmai che il sistema è ad un bivio o, meglio, ad un trivio: tra prosecuzione indefessa verso la rotta iperliberista trumpiana; riformismo neoliberale democratico e alternativa socialista alla Sanders.
Noi non viviamo negli States e quindi possiamo anche non porci il dilemma se votare o no Kamala Harris (visto che si esclude a priori di dare il proprio consenso alla quintessenza del peggio del managerialismo conservatore e retrivo rappresentato da Trump). Ma un elettore di sinistra, magari un socialista, un comunista questa scelta deve indubbiamente porsela. La tentazione di preferire candidate come Jill Stein (ambientalista, libertaria e alternativa ad entrambi gli schieramenti) è certamente forte.
Dipende l’obiettivo che ci si intende dare: battere prima il nemico comune e poi continuare a lottare per una società che non è indubbiamente quella immaginata dai democratici ma che, per quanto sia lontana dalla nostra, è certamente meno distante di quella che verrebbe consolidandosi con una seconda presidenza trumpiana. Il Communist Party USA scrive sulla propria pagina Facebook: «Non dimenticare mai chi è il nemico interno! Trump continua a sostenere e ad alimentare i peggiori istinti neonazisti e suprematisti bianchi. Un suo secondo mandato incoraggerà i più pericolosi estremismi. Come marxisti-leninisti, comprendiamo sia l’importanza che i limiti del processo elettorale attuale negli USA».
[Un articolo del CPUSA sulle candidature alternative ai due poli, nello specifico su quella del filosofo Cornel West]
A questa consapevolezza, che unisce ideali, visioni del futuro e realtà e pragmatismo dell’oggi, sarebbe bene attingessero molte formazioni della sinistra in Europa e, nello specifico in Italia. Potremmo superare quel settarismo ottundente che ostacola una nuova rinascita del progressismo, un dialogo con chi ci è vicino eppure anche diverso, così come noi lo siamo rispetto al resto delle forze politiche. Ma certe lotte possono e devono essere comuni, perché, per far avanzare i diritti sociali non possiamo retrocedere su quelli civili ed umani. Prima battere i Trump di casa nostra e poi fronteggiare anche le Harris sul piano del compatibilismo neoliberale e imperialista.
MARCO SFERINI
2 novembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria