Il rebus israeliano nell’escalation della guerra mediorientale

Come è possibile credere anche soltanto lontanamente alla volontà da parte israeliana di non portare il conflitto mediorientale verso quella temuta escalation che è, nei fatti, già un dato...

Come è possibile credere anche soltanto lontanamente alla volontà da parte israeliana di non portare il conflitto mediorientale verso quella temuta escalation che è, nei fatti, già un dato conclamatamente presente nei tanti fronti aperti dallo Stato ebraico contro i suoi nemici storici? Dalla guerra di Gaza a quella del Libano, dal conflitto con gli Houthi a quello con Siria ed Iran, Israele sta portando avanti una ridefinizione complessiva del suo ruolo nell’asse della regione.

Si sta mettendo in discussione come potenza egemone, con alle spalle la copertura statunitense ed europea (per quanto questa seconda sia, a tutti gli effetti, una comprimaria), per divenire una base strategica dell’imperialismo occidentale e accrescersi in quanto a rapporti con gli altri Stati arabi, rompendo lo schema dell'”asse della resistenza” e riproponendo, ovviamente in forma rivista e aggiornata, i “patti di Abramo“. Per quanto, dopo l’attacco di stanotte alle basi militari nei pressi di Teheran, anche l’Arabia Saudita inizi a temere che non esista un limite all’azione israeliana.

Sia per quanto riguarda la ritorsione, la rappresaglia agli attacchi sul suo territorio da parte di Iran, Hezbollah e Hamas, sia per ciò che concerne la strutturazione di una potenza militare che va ben oltre il semplice apparato difensivo. Di contro, la Repubblica islamica sembra piuttosto insicura sull’innalzamento dello scontro: il ruolo nei BRICS la mette al riparo da una aggressione multilaterale, ma è pur vero che la polarizzazione delle nuove potenze ri-emergenti non è una garanzia tout court.

Gli interessi interni ed esteri dei singoli Stati non sono omogeneamente distribuiti entro un perimetro consolidato: Occidente ed Oriente si scrutano e si annusano; testano le loro capacità offensive e difensive nelle guerre in corso e mostrano i muscoli per quelle che un giorno potranno, disgraziatamente, venire (Taiwan docet…). Del resto, Israele sembra portare sempre più alle estreme conseguenze la sua lotta per l’esistenza che, ormai, è data per certa dalla maggioranza degli Stati.

Tuttavia proprio questa politica di espansione, di repressione violenta, di genocidio del popolo palestinese, guerrafondaia e imperialista rischia di far traballare una serie di certezze date ormai per acquisite: se escludiamo Libano e Siria, per ovvie ragioni, Egitto e Giordania intrattengono con Israele relazioni diplomatiche ed economiche da lungo tempo. Così pure la Turchia. Ma la guerra di Gaza ha rimescolato le carte e la decisione del gabinetto di guerra di Netanyahu e dei generali di Tsahal di ribaltare il tavolo della questione e muovere contro ogni nemico di Israele, ha aperto vecchie crepe.

Il presidente Erdogan non è, dopo il 7 ottobre, mai stato tenero nei confronti dello Stato ebraico. E così non lo sono stati altri paesi del Golfo Persico in cui Hamas aveva rifugio, conforto e tutela economica e politica. La sfida lanciata da Tel Aviv contro gran parte del mondo arabo ha assunto oggi una fisionomia che va oltre il gravoso problema del riconoscimento dello Stato palestinese, del diritto del popolo di Gaza e Cisgiordania a vivere nella propria terra e, quindi, del ritiro totale delle armate e dei coloni sionisti.

La guerra si è stratificata ed è divenuta versatile: a tratti pare favorire le ragioni dei paesi arabi che rimangono amici di Israele ma che non disconoscono le altre ragioni, quelle dei palestinesi; per altri versi invece, lo scambio ormai continuo di scaramucce tra Tel Aviv e Teheran inizia a far temere che nessuno dei due intenda fermarsi, perché ne fa anzitutto della stabilità dei rispettivi governi e, quindi, del mantenimento di un potere che prescinde della maggioranze di governo per quanto riguarda Israele e delle consorterie teocratiche per quel che concerne la Repubblica islamica.

La domanda iniziale quindi si riaffaccia con tutt’altro che inusitata prepotenza: è mai possibile credere ai proclami dell’intelligence, delle forze armate e del governo di Israele quando afferma di non volere l’escalation militare-bellica nell’area mediorientale? La risposta è: no. Non è possibile credere a tutto questo, perché le smentite sono sotto gli occhi di tutti e il ruolo degli Stati Uniti d’America, i soli che potrebbero fermare (o tentare veramente di fermare) Netanyahu, sono sul bilico instabile della tornata elettorale presidenziale.

Finiscono così per avere un ruolo di subordinazione alla politica-economia di guerra imperialista israeliana e di versi trascinare dal premier israeliano in un conflitto dalle proporzioni sempre più ampie e dalle prospettive sempre meno sicure: per qualunque presidente venga dopo Joe Biden alla Casa Bianca. Nessuna delle amministrazioni precedenti ha dimostrato vere intenzioni di pace nei confronti del popolo palestinese, spingendo lo Stato ebraico, ad esempio, ad accettare e condividere le risoluzioni delle Nazioni Unite.

Sempre più evidente è che Israele fa ciò che vuole e lo fa a discapito del diritto internazionale, spernacchiando l’ONU, tacciando il Segretario generale, il Consiglio di sicurezza e la stessa Assemblea generale di antisemitismo nel momento in cui criticano l’eccessivo ricorso alla forza e la desertificazione omicidiaria e – diciamolo francamente – assimilabile al terrorismo che pretende eticamente e civilmente di combattere. Le condanne europee sono poco conto: la comprimarietà di cui si diceva poco sopra è equiparabile ad un servaggio nei confronti della Repubblica stellata.

L’Europa è priva di una politica estera comune e si muove disordinatamente tra le pulsioni filo-libanesi della Francia e l’aperta ostilità di altri Stati dell’Unione nei confronti della causa palestinese e dell'”asse della resistenza“. Di certo in Medio Oriente c’è soltanto il ginepraio in cui Israele si è cacciato, aprendo fronti su fronti, agendo come uno Stato privo di qualunque aggancio al diritto internazionale e, per questo, altamente imprevedibile: di qui i timori che Arabia Saudita, Giordania ed Egitto hanno avuto da un certo momento in poi tanto sulla conduzione dello sterminio a Gaza, quanto sull’apertura del fronte libanese.

Vi è il rischio di non poco conto che i progetti espansionistico-imperialisti del sionismo religioso, egemone nel governo israeliano, diventino sul lungo periodo un elemento di grande incertezza per la stessa stabilità dello Stato ebraico e finiscano con il non garantire ad Israele quella soluzione dei conflitti che dovrebbe portare all’annientamento dei nemici e alla pace interna e nella regione.

Tutto questo è francamente difficile non solo da immaginare ma, prima ancora, da ipotizzare su un terreno propriamente politico, diplomatico e, quindi, gestito secondo una supervisione internazionale: Israele rifiuta e rifiuterà ancora il riconoscimento dello Stato di Palestina e fino a quando lo farà, perché potrà farlo grazie (anche e soprattutto) alla protezione statunitense e alla condiscendenza occidentale nel suo complesso, non potrà esistere nella regione mediorientale nessuna vera pace condivisa tra Tel Aviv e Stati arabi.

La risposta iraniana alle rappresaglie israeliane sulle basi militari è da attendersi? Oppure Teheran deciderà di mantenere ancora la sua politica su un piano di “pazienza armata” per evitare uno scontro che, alla fine, coinvolga anche direttamente Washington? Impossibile prevederlo, vista in particolare la repentinità con cui le azioni si svolgono sul terreno della guerra propriamente detta e fatta e, non di meno, su quello delle schermaglie che sono le risposte alle provocazioni dell’una e dell’altra parte.

Certo è che l’Italia stessa, così come l’Europa, in caso di escalation militare, non rimarrebbe esclusa dai pericoli di ritorsioni, da penetrazioni terroristiche, da tentativi di destabilizzazione della sicurezza interna così come di quella delle nostre truppe impegnate nella missione UNIFIL e che, al momento, sono state oggetto di violenti attacchi da parte delle truppe israeliane e non certo di quelle di Hezbollah o dell’esercito libanese. La drammaticità del quadro della tragedia palestinese si offusca, si stempera sullo sfondo di una più complicata rete di rapporti internazionali.

Il tutto senza che si affacci sulla scena dei crimini che Tel Aviv compie da un anno a questa parte tanto a Gaza quanto in ogni territorio occupato, un tentativo di soluzione diplomatica percepito da Israele come leva del diritto, come esigenza globale, come punto anche etico che non può essere oltrepassato. L’arroganza del governo Netanyahu è quella di un esecutivo proprio di un regime militare e teocratico, al pari di quello che si potrebbe figurare disegnando i contorni delle politiche iraniane.

Israele finisce col somigliare sempre più ai nemici che combatte in nome di una presunta libertà e democrazia che, proprio col genocidio del popolo palestinese, non ha più nessun diritto di rivendicare come elemento strutturale della sua entità di Stato, di comunità nazionale, di popolo. Un popolo che subisce un capriccioso rito espansionistico, un sogno sionista del passato che si invera oggi ma che, nonostante tutto, non era nemmeno contemplato nelle origini del movimento di ricomposizione della diaspora millenaria.

L’Israele di oggi, come Stato, è il peggio che la nazione ebraica potesse darsi per avere ancora ragione della Storia. Se ha avuto questa ragione per qualche settimana, dopo l’efferato crimine terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, immediatamente dopo, quando Gaza ha cominciato ad essere rasa al suolo e il numero dei morti si contava esponenzialmente in decine di migliaia, è passato dalla parte del torto più marcio che vi potesse essere.

E da allora tutta la tattica bellica è stata improntata alla strategia di lungo corso del perfezionamento dell’occupazione coloniale in Cisgiordania, del recupero di Gaza al controllo militare prima e politico poi, del consolidamento delle posizioni nel Golan e, quindi, dell’affrontare in una volta sola, per farla finita, tutti i nemici dell’asse iraniano e, magari, l’Iran stesso. Per ora a questa seconda opzione finale non si è ancora giunti, ma le premesse vi sono, drammaticamente, tutte.

La risposta agli attacchi iraniani, a loro volta risposta agli omicidi mirati dei capi di Hamas ed Hezbollah, nonché alle ritorsioni israeliane in territorio diplomatico estero (un vero e proprio attacco ad uno Stato sovrano), istruisce una spirale di continuità che non si interromperà se non con l’effettiva dimostrazione dell’incapacità di uno dei due contendenti di dare una replica adeguata e sempre più efficace e superiore all’altro.

Ma se dovrà essere la forza delle armi a decidere la sorte di queste guerre, non ci domanderemo più se l’esponenzializzazione della crisi è possibile, perché vi saremo già pienamente dentro e su una scala veramente globale.

MARCO SFERINI

26 ottobre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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